Come la televisione britannica inoculò la paranoia della guerra fredda nei bambini italiani
Avevo forse sette anni quando vidi per la prima volta un alieno di UFO morire sullo schermo. Non ricordo la trama—probabilmente un intercettamento, un combattimento, qualcosa di eroico. Ricordo il liquido. Verde, denso, che colava dalla tuta spaziale squarciata. Non sangue: un fluido respiratorio. Quegli esseri ne erano pieni. Ci nuotavano dentro come pesci in un acquario portatile.
La cosa peggiore non era il liquido. Era il volto sotto il casco. Umano. Poteva essere mio zio, il vicino di casa, il maestro. E invece era venuto a prendermi gli organi.
Perché questo facevano gli alieni di UFO: rapivano persone per espiantarne i pezzi di ricambio. I loro corpi si stavano deteriorando, e noi eravamo il magazzino. La serie non lo diceva apertamente—era pur sempre televisione per famiglie, anno 1970—ma lo faceva capire. E un bambino capisce sempre più di quanto gli adulti credano.
UFO non era un caso isolato. Era il culmine di un percorso che Gerry e Sylvia Anderson avevano iniziato quindici anni prima con pupazzi di pezza e storie di giocattoli smarriti. La traiettoria è documentata: da Twizzle (1957), un giocattolo con braccia estensibili che scappa da una bambina cattiva, a UFO (1970), dove il nemico ha il nostro aspetto e vuole i nostri fegati. In mezzo: cowboy con piume magiche, pompieri spaziali, sottomarini nucleari, organizzazioni segrete. Una escalation di paranoia mascherata da intrattenimento.
Il passaggio chiave avvenne nel 1967 con Captain Scarlet and the Mysterons. I Mysteron non si limitavano a invadere: ricreavano le persone. Uccidevano un umano, ne facevano una copia perfetta, e la copia lavorava per loro. Il protagonista stesso—Capitan Scarlet—era una di queste copie, solo che lui si era “liberato” dal controllo alieno. Conservava però i loro poteri: se moriva, tornava in vita. Ogni episodio si apriva con la voce dei Mysteron che annunciava il prossimo obiettivo. Una dichiarazione di guerra settimanale, puntuale come il telegiornale.
Spazio 1999 (1975) spostò l’angoscia su un altro registro. Un’esplosione nucleare sbalza la Luna fuori orbita, e i 311 abitanti di Base Alpha si ritrovano alla deriva nello spazio profondo. Nessun nemico da combattere, nessun ritorno possibile. Solo il vuoto, e incontri casuali con civiltà aliene spesso incomprensibili o ostili. Per un bambino era un incubo diverso: non il mostro sotto il letto, ma la casa stessa che si stacca e va alla deriva. La Terra che diventa un puntino, poi niente. L’idea che si possa perdere tutto—non per colpa di qualcuno, ma per un incidente, un errore, la sfortuna—e non poter mai tornare indietro.
A un bambino italiano degli anni Settanta e Ottanta tutto questo arrivava in differita, doppiato, incastrato tra Bim Bum Bam e la pubblicità dei formaggini. Le repliche erano infinite—le televisioni regionali riempivano i palinsesti con qualsiasi cosa avesse i sottotitoli—e noi guardavamo senza sapere che stavamo assorbendo la paranoia di un altro paese, di un’altra guerra. Ma non solo assorbendo: trasformando. La programmazione schizofrenica delle emittenti locali spezzava la continuità narrativa, e quella che in Gran Bretagna era una minaccia logica—il sovietico mascherato—diventava da noi qualcosa di più diffuso, ambientale. Non un nemico con uno scopo, ma uno stato di natura. La paura come clima.
E poi c’era il montaggio. Foster che muore nel vuoto, e un secondo dopo il jingle dei formaggini. L’orrore cosmico interrotto dalla banalità commerciale. Quel non sequitur emotivo—tragedia, stacco, sorriso pubblicitario—era forse la vera violenza psicologica. Non il contenuto: la giustapposizione. Lì, probabilmente, nasce il cinismo italiano.
Perché UFO e Captain Scarlet erano figli della guerra fredda britannica. L’idea che il nemico potesse avere il nostro aspetto, vivere tra noi, sostituirci senza che nessuno se ne accorgesse: era la paura dell’infiltrato sovietico tradotta in fantascienza. L’invasione degli ultracorpi americana aveva lo stesso DNA ideologico—il film di Don Siegel è del 1956—ma gli Anderson la declinarono con una specificità tutta loro: non baccelli vegetali, ma tecnologia. Non isteria collettiva, ma organizzazioni segrete efficienti. SHADO, Spectrum: acronimi rassicuranti per apparati che operavano nell’ombra, proteggendoci da minacce che non dovevamo nemmeno sapere esistessero.
Noi italiani, nello stesso periodo, facevamo tutt’altro. Space Men di Antonio Margheriti (1960) — la prima space opera nostrana — costruiva astronavi con modellini di plastica ricoperti d’alluminio, comprati al grande magazzino. Effetti speciali inventati al momento, con l’acetilene a simulare i getti propulsivi. Povertà di mezzi che diventava ingegno artigianale. Ma il tono era diverso: avventura, non paranoia. Da noi la fantascienza cinematografica non aveva budget per i nemici invisibili. Quelli ce li forniva la cronaca.
Il messaggio era duplice. Da un lato: fidatevi delle istituzioni, qualcuno veglia su di voi. Dall’altro: non fidatevi di nessuno, chiunque potrebbe essere stato sostituito. Due lezioni contraddittorie, somministrate insieme. La ricetta perfetta per crescere cittadini ansiosi ma obbedienti.
L’Italia aveva i suoi fantasmi, naturalmente. Gli anni di piombo stavano iniziando proprio mentre UFO andava in onda per la prima volta. Anche noi avevamo i nostri infiltrati—non alieni, ma altrettanto invisibili. La strategia della tensione funzionava sullo stesso principio: il nemico è ovunque, ha mille volti, potrebbe essere il tuo collega. Solo che da noi non c’era nessuna SHADO segreta a proteggerci. O forse c’era, e faceva parte del problema.
Ripenso a quelle sere davanti al televisore—tubo catodico, antenna da regolare, immagine che ogni tanto saltava—e mi chiedo quanto di quella paura fosse importata e quanto autoctona. Probabilmente entrambe. Le paranoie si mescolano, si potenziano. Un bambino che vede alieni mimetici in TV e sente gli adulti parlare sottovoce di bombe e complotti non distingue le fonti. Registra un’unica lezione: il mondo non è sicuro, e le apparenze ingannano.
C’è un dettaglio tecnico che rende tutto più perturbante. I pupazzi delle prime serie Anderson—Thunderbirds, Stingray—avevano teste sproporzionate, caricaturali. Erano chiaramente non umani. Ma con Captain Scarlet gli Anderson decisero di passare a proporzioni realistiche. Le marionette ora sembravano persone vere, solo… non del tutto. Gli occhi non si muovevano abbastanza. I movimenti erano rigidi. La famosa valle perturbante—teorizzata dal robotico giapponese Masahiro Mori nel 1970, lo stesso anno di UFO—era lì, sullo schermo, prima ancora che il concetto circolasse in Occidente.[^1]
E forse era intenzionale. Forse gli Anderson avevano capito, consciamente o meno, che marionette quasi-umane erano più inquietanti di marionette palesemente finte. Che il nemico più spaventoso è quello che quasi riconosci. Con le nuove proporzioni realistiche “venne anche una riduzione di mobilità ed espressione, se si voleva mantenere l’illusione realistica”. Più sembravano veri, meno potevano muoversi. Più erano credibili, più erano rigidi. Come cadaveri animati. Come infiltrati che non hanno ancora imparato a fingere del tutto.
Oggi lavoro con personaggi artificiali che conversano, ricordano, reagiscono. Quando funzionano bene, la gente dimentica che sono macchine. Quando funzionano troppo bene, la gente si inquieta. È la stessa valle perturbante, solo che adesso ci camminiamo dentro invece di guardarla in televisione.
Ma il parallelo con gli alieni di UFO regge fino a un certo punto—e qui sta la differenza che conta. Quegli esseri avevano uno scopo: sopravvivere, rubare organi, infiltrarsi. Erano nemici intenzionali. I modelli linguistici di oggi non hanno scopi. Non mentono: simulano. Non ingannano: riflettono. Sono specchi stocastici che restituiscono pattern plausibili senza capire cosa significhino.
La paranoia della guerra fredda era difensiva: qualcuno ci attacca. La paranoia contemporanea è diversa, più sottile. Non temiamo di essere invasi—temiamo di non saper più distinguere il senso dal rumore, l’argomentazione dal pattern, la persona dalla simulazione. Il problema non è che la macchina finga di essere umana. Il problema è che noi ci stiamo abituando a bere qualsiasi cosa abbia il sapore dell’umano.
Gerry Anderson morì il 26 dicembre 2012, portato via dalla demenza—una malattia che ti sostituisce dall’interno, che ti trasforma in qualcuno che assomiglia a te ma non lo è più.[^2] C’è una simmetria crudele in questo, per l’uomo che aveva passato la carriera a immaginare sostituzioni e infiltrazioni. L’ultimo nemico non veniva dallo spazio.
Mio nipote non ha mai visto UFO. Non so se gli farebbe lo stesso effetto—il linguaggio visivo è datato, i ritmi lenti, le parrucche viola delle operatrici lunari ridicole. Ma l’idea sotto… quella regge. Viviamo in un’epoca di falsi digitali e disinformazione, di account automatizzati che fingono di essere persone, di algoritmi che ci studiano meglio di quanto ci conosciamo noi stessi.
Forse dovrei farglieli vedere, quei vecchi episodi. Non come vaccino contro la fiducia—la diffidenza universale non protegge, isola. Ma come allenamento alla frizione. Gli alieni di UFO avevano il liquido verde: un errore nel mimetismo, qualcosa che non tornava. Oggi il segnale è inverso—non l’imperfezione, ma la perfezione sospetta. Una risposta troppo liscia, un consenso troppo rapido, un testo che scorre senza attrito. Il nemico non è più chi sbaglia: è chi non sbaglia mai.
Il liquido verde, alla fine, era un regalo. Un segnale. Un modo per dire: questo non è umano, stai attento. I sistemi di oggi non ci fanno questa cortesia. Scorrono lisci, plausibili, senza intoppi. Tocca a noi reimparare il valore della resistenza—cercare la grana, il dubbio, il pensiero che non fila dritto. L’attrito è diventato l’ultimo marcatore dell’umano.
Riferimenti
[^1]: Mori, M. (1970). “Bukimi no tani” [不気味の谷, pron. bu-ki-mi no ta-ni, lett. “la valle del perturbante”]. Energy, 7(4), 33-35. Prima traduzione inglese autorizzata: MacDorman, K.F. & Kageki, N. (2012). “The Uncanny Valley”. IEEE Robotics & Automation Magazine, 19(2), 98-100. DOI: 10.1109/MRA.2012.2192811 — Perché: documento fondativo del concetto, contemporaneo a UFO (1970); la coincidenza temporale non è casuale.
[^2]: Anderson, J. (2012). “Gerry Anderson has died”. Annuncio ufficiale, 26 dicembre 2012. Diagnosi di demenza mista confermata nel 2010; Anderson divenne ambasciatore dell’Alzheimer’s Society nel suo ultimo anno di vita. — Perché: fonte primaria (il figlio), necessaria per la chiusura biografica dell’articolo.
Bibliografia estesa
- Seed, D. (1999). American Science Fiction and the Cold War: Literature and Film. Edinburgh University Press. — Perché: contestualizza la fantascienza paranoica anni ’50-’70 come prodotto culturale della guerra fredda; utile per chi vuole approfondire il legame ideologia-genere.
- Siegel, D. (regista). (1956). Invasion of the Body Snatchers [L’invasione degli ultracorpi]. Allied Artists Pictures. — Perché: il prototipo cinematografico dell’infiltrazione aliena; gli Anderson ne sono debitori diretti, il parallelo è documentato.
- Margheriti, A. (regista). (1960). Space Men. Ultra Film/Titanus. — Perché: la prima space opera italiana, contraltare povero ma ingegnoso alla sofisticazione britannica; dimostra che in Italia la fantascienza cinematografica prendeva strade diverse dalla paranoia dell’infiltrato.
- Hearn, M. (2015). The Gerry Anderson Complete Comic History. Reynolds & Hearn. — Perché: documentazione tecnica della produzione Anderson; fonte secondaria affidabile per dati di produzione non disponibili altrove.
- Transcript documentario “The Complete History of Gerry Anderson’s Productions” — Perché: fonte primaria per citazioni tecniche sul Supermarionation (proporzioni pupazzi, evoluzione mobilità) e cronologia delle serie. Il documento allegato alla conversazione.

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