Identità, avatar e l’illusione del corpo senza cuciture
Nel 2003 aprivo un blog su Splinder. Non scrivevo: curavo. Cercavo immagini belle in giro per il web e le presentavo con una certa solennità, come un sacrestano che dispone i fiori sull’altare. Non erano mie, ma la selezione sì. L’atto di scegliere, accostare, commentare — quello era il contributo. Mi serviva un nome, e Salazar era già occupato. Aggiunsi una h. Stenvaag venne dopo, il più lontano possibile da un nick italiano consigliato da SL stesso, nome che prometteva autorevolezza scandinava a poco prezzo.
Ventun anni dopo, quel nome esiste ancora. Ha scritto articoli, tenuto conferenze, stretto mani virtuali e reali. Ha una storia più lunga di molte carriere. E la domanda che nessun paper sull’identità digitale affronta davvero è questa: dove risiede un’identità che ha cambiato casa tre volte?
L’età dell’oro e i suoi accidenti
Second Life, 2007. Entravo in un mondo che prometteva la fine del corpo come limite. Potevi essere alto, basso, umano, drago, una nuvola di particelle. L’identità fluida non era teoria critica: era un menu a tendina.
Nei primi giorni, perso tra interfacce ostili e comandi criptici, incrociai un avatar che mi diede una mano. Spiegazioni pazienti, indicazioni pratiche. Solo settimane dopo scoprii che era Philip Rosedale — il creatore della piattaforma. Non lo sapevo, non mi aveva detto nulla, non serviva. Le gerarchie esistevano, ma potevi attraversarle senza saperlo.
Pirandello in Uno, nessuno e centomila racconta Vitangelo Moscarda che scopre, dallo specchio, di avere un naso storto che tutti vedevano tranne lui. L’identità si frantuma negli sguardi altrui. In Second Life potevi scegliere quali sguardi incontrare. Non abolivi la molteplicità del sé — la navigavi.
Tom Boellstorff, antropologo, aveva capito il punto. Visse dentro Second Life tre anni per scrivere Coming of Age in Second Life (2008), trattando i residenti come una cultura da studiare con metodo etnografico. Non come giocatori, non come utenti: come abitanti. Lo invitai a un nostro incontro nel mondo, e partecipò. Seguirono scambi epistolari che durarono anni. Era possibile, allora, costruire relazioni intellettuali serie attraverso avatar.
Il corpo tradisce
Ma il corpo — anche quello fatto di poligoni — tradisce.
C’era una riga sul collo. Una cucitura visibile tra la testa e il torso, dove le texture non combaciavano mai. Potevi spendere migliaia di Linden Dollar in pelle fotorealistica, capelli che ondeggiavano al vento simulato, occhi con riflessi dinamici — e quella riga restava lì. L’incarnato del viso tradiva quello del corpo. Pezzi dell’avatar uscivano dalle mesh, gli alpha creavano buchi dove non dovevano.
L’identità virtuale prometteva liberazione dalla carne, e invece produceva una carne peggiore: più fragile, più costosa da mantenere, con difetti che non potevi nascondere con un maglione a collo alto.
Pirandello, di nuovo. Moscarda si fissa sul naso; io mi fissavo sul collo. La differenza: Moscarda impazzisce perché scopre che l’immagine che ha di sé non corrisponde a quella degli altri. Io sapevo benissimo che l’immagine non corrispondeva — vedevo la cucitura ogni volta che aprivo l’inventario. Ma restavo. Per otto anni restai.
Perché l’identità non è l’immagine. È la storia che l’immagine permette di accumulare.
L’economia dell’incarnazione
Second Life cambiò. La piattaforma inseguiva il profitto — comprensibile, doveva sopravvivere. Ma le scelte tecniche riflettevano priorità precise. Barriere di scripting sempre più pesanti, ufficialmente per difendersi dagli hacker. In pratica, per controllare cosa potevi fare con il tuo stesso avatar.
Il corpo virtuale richiedeva manutenzione costante. Blender diventava più complesso ad ogni versione; i programmi per animare, per costruire mesh, per ottimizzare texture — tutto costava di più, in denaro e in tempo.
C’era un plugin, Avastar. Poteva curare la riga sul collo, aggiustare i pezzi che uscivano dalle mesh quando camminavi, rendere l’avatar finalmente intero. Costava, e ad ogni versione costava di più. E ad ogni versione diventava più difficile da padroneggiare. Quando mi resi conto che non potevo più tenere un corso sugli avatar senza un tool che ormai non dominavo — che avrei dovuto insegnare qualcosa che io stesso faticavo a usare — capii che l’idillio era finito.
Il paradosso era evidente: avevano promesso un corpo libero dal peso della biologia, e avevano creato un corpo che richiedeva più manutenzione di quello biologico. Almeno la carne si ripara da sola, entro certi limiti.
Nel 2015 me ne andai. Non da Salahzar — da Second Life. OpenSimulator offriva libertà tecnica, costi inferiori, comunità più piccole ma meno sorvegliate. Era emigrazione, non morte. Le relazioni che contavano erano già migrate altrove — email, convegni, pagine web. Il mondo virtuale era diventato un punto di partenza, non di arrivo. L’identità si portava dietro la sua storia, le sue competenze, il suo nome.
L’identità sopravvive al suo luogo
Salahzar esiste ancora. Scrive, insegna, partecipa a convegni. Non ha più un corpo poligonale da manutenere. La riga sul collo è scomparsa insieme al collo. Ma le relazioni costruite dentro quel mondo persistono. Le competenze accumulate — scripting, costruzione 3D, gestione di comunità — si sono trasferite altrove. L’identità non stava nel corpo avatar; stava tra quel corpo e gli altri, nel tessuto di interazioni che il corpo rendeva possibili.
Chi studia l’identità virtuale tende a confondere Second Life con World of Warcraft — “giochi con avatar personalizzabili”. Ma in WoW hai un personaggio con obiettivi predefiniti: uccidi il drago, sali di livello, ottieni l’armatura. L’avatar è strumento. In Second Life tu eri l’obiettivo. Non c’era niente da vincere. C’era solo da essere, e decidere cosa significasse.
La curatela nell’era delle macchine
Torno al 2003. Splinder, le immagini curate, la h aggiunta per evitare un’omonimia.
Curare significava scegliere. La scelta era il contributo creativo. Non producevo nulla; selezionavo, accostavo, contestualizzavo. Era un atto autoriale senza autorialità — o forse con un’autorialità diversa, distribuita, relazionale.
Oggi i sistemi di AI generativa fanno qualcosa di simile: aggregano, sintetizzano, ricombinano. Ma la domanda che mi ponevo nel 2003 — cosa rende mio un gesto di selezione? — diventa più urgente, non meno. Se curare è creare, allora anche l’algoritmo crea? E se sì, l’identità dell’algoritmo dov’è?
La risposta, sospetto, sta nella storia. Un algoritmo non ha storia. Non ha incontrato Rosedale per caso in un’area di costruzione. Non ha fissato una riga sul collo chiedendosi se valesse la pena restare. Non ha dovuto decidere se emigrare quando la piattaforma diventava inospitale.
L’identità umana — anche quella virtuale — è fatta di decisioni prese nel tempo. Scelte che avrebbero potuto essere diverse, e che quindi raccontano qualcosa su chi le ha fatte. L’algoritmo non decide: calcola. La differenza sembra sottile. Non lo è.
Ventun anni fa aggiunsi una h a un nome per evitare un’omonimia. Non sapevo che quel nome avrebbe attraversato piattaforme, corpi poligonali, migrazioni tecnologiche, la chiusura di Splinder e il declino di Second Life. Non sapevo che avrebbe stretto mani reali a conferenze dove nessuno chiedeva come mi chiamassi all’anagrafe.
L’identità non sta nei menu a tendina, né nella qualità delle texture, né nella fluidità delle animazioni. Sta in una decisione ripetuta: domani userò ancora questo nome. E dopodomani. E quando la piattaforma chiuderà, lo porterò altrove.
L’algoritmo non decide. Calcola. La differenza sembra sottile. Non lo è.
Riferimenti
[1] Boellstorff, T. (2008). Coming of Age in Second Life: An Anthropologist Explores the Virtually Human. Princeton University Press. — L’unico studio etnografico serio su Second Life come cultura, non come tecnologia. Boellstorff trattava i residenti come informatori, non come soggetti sperimentali.
[2] Pirandello, L. (1926). Uno, nessuno e centomila. — Sul rapporto tra immagine di sé e sguardo altrui. Moscarda scopre che esistono tante versioni di lui quante sono le persone che lo guardano. Applicabile, con le dovute cautele, agli avatar.
[3] Turkle, S. (1995). Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet. Simon & Schuster. — Scritto prima di Second Life, ma già conteneva l’intuizione centrale: gli ambienti online permettono di “giocare” con l’identità in modi impossibili offline. Il limite: Turkle vedeva questo come sperimentazione temporanea, non come residenza permanente.

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