Come un gioco anti-capitalista diventò il capitalismo stesso

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Ovvero: la storia di Elizabeth Magie e del più perfetto tradimento ideologico del Novecento


C’è qualcosa di perfettamente, crudelmente ironico nel fatto che Monopoly – il gioco che ha insegnato a generazioni di bambini che schiacciare gli avversari è divertente – sia nato come manifesto anti-capitalista. Non è una di quelle leggende urbane che circolano su Reddit: è storia documentata, brevetti alla mano, con tanto di cifre imbarazzanti e appropriazioni indebite.

La protagonista si chiama Elizabeth Magie, ed è una di quelle figure che il Novecento ha fatto di tutto per dimenticare. Nel 1904 – quando le donne non votavano e difficilmente brevettavano alcunché – lei depositò il brevetto per The Landlord’s Game [1], un gioco da tavolo pensato per fare una cosa molto precisa: dimostrare quanto il sistema della proprietà fondiaria fosse una trappola feudale mascherata da libero mercato.

La lezione che nessuno voleva imparare

Magie era una georgista convinta, seguace delle idee di Henry George, economista che sosteneva una cosa pericolosamente semplice: la terra non andrebbe posseduta privatamente, perché chi ci costruisce sopra cattura valore che non ha creato. La rendita è furto legalizzato. Per far capire il concetto senza noiose dissertazioni, Magie inventò un gioco con due set di regole [2]:

  • Versione monopolista: vinci se schiacci tutti e accumuli proprietà. Il classico “diventa ricco e affama gli altri”.
  • Versione cooperativa (Prosperity): tutti guadagnano quando qualcuno prospera, la ricchezza si distribuisce, nessuno fallisce.

L’idea era brillante: giocare la differenza tra un sistema che concentra e uno che redistribuisce. Far provare sulla pelle cosa significa finire su Parco della Vittoria quando qualcuno possiede mezza scacchiera.

Peccato che a Parker Brothers, nel 1910, dissero: “Troppo complicato, signorina. Grazie lo stesso.” [3]

L’appropriazione (corale)

Qui la storia si fa stratificata. Il gioco di Magie non scomparve: circolò per trent’anni in versioni fatte in casa, soprattutto in ambienti universitari, tra quaccheri e famiglie progressiste della East Coast [5]. Veniva copiato, modificato, passato di mano in mano come una ricetta di famiglia. Una delle varianti – sviluppata nella cerchia quacchera di Atlantic City (Ruth Hoskins, i fratelli Raiford e altri) – includeva le strade della città balneare che oggi tutti conosciamo [5].

(Dettaglio per maniaci: il celebre refuso “Marvin Gardens” invece di “Marven Gardens” nasce proprio in questa fase di trasmissione orale, poi cristallizzato nella versione commerciale – un fossile perfetto della diffusione popolare spontanea [2].)

Poi arrivò Charles Darrow, disoccupato della Grande Depressione, che imparò una di queste versioni, la rifinì, e nel 1935 la vendette a Parker Brothers come invenzione propria [4]. Parker Brothers – che decenni prima aveva respinto l’idea originale di Magie come “troppo complicata” – stavolta accettò, perché Darrow l’aveva già venduta artigianalmente con discreto successo.

A quel punto la casa editrice fece una mossa da manuale: comprò tutti i brevetti concorrenti per blindare il monopolio. E sì, comprò anche i diritti da Magie. Per 500 dollari [3]. Niente royalties, niente riconoscimenti. Più la promessa (mantenuta) di pubblicare due suoi giochi minori che nessuno si ricorda.

Darrow divenne milionario. Magie finì largamente dimenticata – anche se nel 1936 rilasciò due interviste (Washington Post ed Evening Star) rivendicando la paternità del gioco [6], senza però riuscire a scalfire il mito di Darrow come “inventore solitario”.

Il paradosso perfetto

Ma ecco il punto: non fu solo un furto. Fu un tradimento strutturale dell’idea stessa. Perché quando Monopoly divenne prodotto di massa, sopravvisse solo la versione monopolista [2]. La parte cooperativa – quella che era il punto – evaporò. Troppo noiosa? Troppo poco “americana”? Forse semplicemente perché è più divertente vincere che condividere.

E così il gioco pensato per criticare il capitalismo predatorio divenne il suo emblema. Milioni di famiglie passarono domeniche a impoverire parenti e amici, convinti che fosse tutto uno scherzo innocente. Magie voleva insegnare l’ingiustizia del sistema; Parker Brothers finì per venderla come intrattenimento.

È una mutazione culturale talmente perfetta che quasi disarma. Un’idea radicale assorbita, svuotata, trasformata nel suo opposto – senza neanche censure, solo per inerzia di mercato. È il classico caso di cooptazione di una contro-narrazione dentro l’industria culturale: la meccanica rimane, il significato ideologico si inverte.

Ma c’è dell’altro: il problema del progetto ludico

Qui entra in gioco (letteralmente) una questione più sottile: la versione cooperativa è strutturalmente meno avvincente. Eliminare giocatori genera tensione drammatica, vedere qualcuno cadere in bancarotta dopo aver costruito un impero crea un apice emotivo. La redistribuzione equa, invece, tende a produrre equilibrio stabile – che è giusto, virtuoso, ma noioso da giocare.

Magie voleva fare pedagogia attraverso il gioco, ma il medium stesso – un gioco competitivo da tavolo – premia l’asimmetria e il conflitto a somma zero. Non è solo che il capitalismo ha cooptato la sua idea: è che le dinamiche ludiche tradiscono intrinsecamente un messaggio cooperativo.

Il che solleva una domanda scomoda: forse non era possibile insegnare quella lezione tramite un gioco di massa, perché il formato stesso richiede vincitori e vinti per funzionare. Il paradosso, quindi, non è solo storico o commerciale – è strutturale al mezzo espressivo scelto.

(Vale la pena notare: giochi cooperativi moderni come Pandemic o Forbidden Island funzionano benissimo – ma lì la cooperazione è meccanica (battere insieme il sistema), non ideologica (redistribuire ricchezza in modo equo). Sono due cose diverse: una genera tensione condivisa, l’altra tende all’equilibrio piatto. Il problema di Magie non era “come fare cooperazione”, ma “come rendere avvincente la redistribuzione sistemica”.)

Quello che resta

Negli anni ’70, durante una causa legale contro Anti-Monopoly (un gioco che criticava i monopoli – meta su meta) [7], emerse finalmente la verità sulla genesi corale del gioco. Magie ebbe un postumo riconoscimento accademico. Parker Brothers non cambiò una virgola sulle scatole.

Oggi, quando giochi a Monopoly, stai tecnicamente praticando una critica al capitalismo che è stata commercializzata così bene da diventare capita(li)smo essa stessa. Elizabeth Magie voleva che imparassimo una lezione. L’abbiamo imparata, ma al contrario.

C’è qualcosa di tremendamente onesto, in questa storia. Più onesto di mille saggi sulla “capacità del mercato di assorbire qualsiasi critica”. Perché qui non c’è stato neanche bisogno di reprimere: è bastato vendere.


Nota a margine: se vi state chiedendo se esista ancora da qualche parte una copia con le regole cooperative originali – sì, esistono ricostruzioni storiche. Ma giocarle richiede uno sforzo volontario che, ammettiamolo, pochi hanno voglia di fare. È più facile costruire alberghi su Parco della Vittoria e guardare gli altri cadere in bancarotta.

Che poi è esattamente quello che Magie temeva.


Fonti

[1] Brevetto US 748,626 (Game-board, 1904) – E. Magie, Google Patents
[2] The Public Domain Review – “The Landlord’s Game: Lizzie Magie and Monopoly’s Anti-Capitalist Origins” (2023)
[3] British Library – “Lizzie Magie and the history of Monopoly” (2023)
[4] History.com – “Who Really Invented Monopoly?” (2024)
[5] Wikipedia – History of Monopoly / The Landlord’s Game
[6] The Washington Post – “The roots of Monopoly: How a left-wing game became a household name” (30 luglio 2015)
[7] Wikipedia – Anti-Monopoly (voce enciclopedica sulla causa legale anni ’70)

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