Atene, la dea, la grammatica dell’ambiguità
C’è un momento nella storia di ogni toponimo in cui la lingua deve decidere: questa cosa qui davanti a noi è una o molte? Roma, per quanto nata dall’accozzaglia di sette villaggi su altrettanti colli, ha sempre avuto la decenza di presentarsi al singolare. Atene no. Ἀθῆναι – Athênai, con quella desinenza in -αι che in greco antico gridava “siamo tante” – si ostinava a essere plurale, come se i suoi abitanti non riuscissero a decidere se vivevano in una città o in un condominio di quartieri che si sopportavano a vicenda.
Non era sola. Tebe, Micene, Platea – l’antica Grecia pullulava di città al plurale, e nessuno sembrava trovarlo strano. Provate a immaginare se oggi dicessimo “sono stato alle Milano” o “le Roma sono bellissime in primavera”. Sembrerebbe che abbiamo bevuto retsina scaduta. Eppure per secoli è stato normale, e il motivo ci dice qualcosa di interessante su come gli antichi pensavano lo spazio urbano – e su come gestivano l’ambiguità pericolosa tra geografia e teologia.
La teoria del villaggio multiplo
La spiegazione più gettonata è prosaica ma affascinante: Atene arcaica non era una città, era un’alleanza di insediamenti – il Ceramico dove facevano i vasi, il Kolonos sulla collina, l’area attorno all’Acropoli con i suoi templi. Il sinecismo, la fusione politica, venne dopo. Prima c’erano le Atene, letteralmente: i villaggi che avrebbero formato Atene. Un po’ come se Torino, Moncalieri e Rivoli si fossero fuse ma avessero mantenuto il nome collettivo “le Torino” per ricordarsi che un tempo erano entità separate.
Questa lettura ha il fascino della concretezza storica. Gli scavi archeologici confermano che l’urbanizzazione attica fu un processo lungo, conflittuale, stratificato. Il plurale sarebbe la traccia linguistica di quella frammentazione originaria, cristallizzata nel nome anche quando la realtà politica era cambiata. La lingua come fossile: un’idea che non sarebbe dispiaciuta a Saussure.
Analogia italiana: se Roma fosse nata dalla confederazione di sette villaggi e si fosse chiamata le Rome, avremmo lo stesso meccanismo. Ma Roma ebbe la fortuna (o l’arroganza) di imporsi come centro unico fin da subito. Atene no: i demi mantennero identità forte anche dopo il sinecismo, e il plurale lo ricordava.
L’ipotesi sacrale: i molti volti della dea
Ma c’è un’altra linea, più sottile. Atene deriva da Atena, la dea polìade che proteggeva la città (e che vinse la gara con Poseidone offrendo l’ulivo invece del cavallo – scelta pratica, molto ateniese). Alcuni filologi sostengono che il plurale non indichi i villaggi ma i luoghi di culto: Ἀθῆναι come “le (sedi di) Atena”, i molteplici templi, altari, statue sparsi per la città. Non “la dimora di Atena” ma “le dimore di Atena”, perché una dea presente ovunque ha bisogno del plurale.
Ipotesi affascinante, anche se più difficile da provare. Il problema è che richiederebbe che ogni città con plurale avesse un culto frammentato, e non sempre torna. Tebe (Θῆβαι, Thêbai) potrebbe funzionare – prende il nome dalla ninfa Thēbē – ma Micene? Meno chiaro. E soprattutto: Delfi (Δελφοί, Delphoí), sede del santuario apollineo più importante di Grecia, è plurale maschile pur non derivando direttamente da Apollo. La teoria dei luoghi sacri multipli funziona meglio come rinforzo che come spiegazione primaria.
Il substrato pre-greco: quando il plurale era default
Terza ipotesi, la più inquietante per chi ama le spiegazioni lineari: e se il plurale toponomastico fosse semplicemente una convenzione linguistica ereditata da un sostrato pre-indoeuropeo? I Pelasgi, i Lelegi, le misteriose popolazioni egeo-anatoliche che abitavano la Grecia prima dell’arrivo degli Elleni parlanti greco – magari loro chiamavano tutti gli insediamenti al plurale. Gli invasori indoeuropei avrebbero preso i nomi così com’erano, senza farsi troppe domande.
È la teoria del relitto linguistico: parole che sopravvivono da lingue morte perché incrostate nei toponimi, che sono le cose più conservatrici del vocabolario. Nessuno cambia il nome di una città per riforma ortografica. Atene plurale sarebbe allora come i suffissi -asco/-asca dei paesi liguri (Bergamasco, Cherasco) o i -ago dei toponimi celtici (Adro, Lezzeno) – tracce di chi c’era prima, impossibili da cancellare.
Molte città greche arcaiche portavano nomi plurali – oltre a Tebe e Micene (Μυκῆναι, Mykênai): Termopili (Θερμοπύλαι, Thermopýlai), Platea (Πλαταιαί, Plataiái). Alcuni linguisti ipotizzano fosse una convenzione onomastica per i toponimi, forse eredità di una fase pre-greca dove i plurali indicavano aree abitate piuttosto che punti singoli.
La vera ragione? Distinguere la città dalla dea
Ma ecco dove diventa davvero interessante, e dove le tre ipotesi precedenti convergono in una quarta funzione: il plurale serve a distinguere morfologicamente il nome della città da quello della dea patrona. Una soluzione elegante a un problema di omonimia sacrale che alcuni filologi considerano la funzione primaria del plurale toponomastico.
Pensa alla situazione comunicativa: un ateniese del V secolo che dice “vado ad Athēnâ” (singolare) creerebbe ambiguità – vai al tempio della dea? Fai un sacrificio? Invochi la divinità?
Dire invece “vado ad Athênai” (plurale) taglia la testa al toro: stai andando fisicamente nella città, non stai facendo riferimento alla sfera religiosa. È una disambiguazione grammaticale, tipo quando in italiano distinguiamo “il capitale” (denaro) da “la capitale” (città) solo col genere.
La strategia della differenziazione morfologica
L’ipotesi ha una logica ferrea: in una società dove la religione permeava ogni aspetto della vita quotidiana, dove Atena era presente in ogni discorso pubblico (invocazioni, giuramenti, feste), serve un meccanismo per tenere separati i piani semantici. Il plurale toponomastico sarebbe allora non un relitto arcaico ma una scelta funzionale attiva: creare uno spazio linguistico diverso per l’entità urbana rispetto all’entità divina.
Questa teoria ha il vantaggio di spiegare perché non tutte le città greche erano plurali – solo quelle con nomi teoforici problematici. Tebe (Θῆβαι, Thêbai), altra città con plurale ostinato, prende nome dalla ninfa Thēbē: stessa necessità di distinguere. Mentre città come Sparta (Σπάρτη, Spártē), Corinto (Κόρινθος, Kórinthos), Argo (Ἄργος, Árgos) – nomi non immediatamente associati a divinità specifiche – restavano tranquillamente singolari.
I controesempi e la stratificazione delle cause
Però – e qui la faccenda si complica – Micene (Μυκῆναι, Mykênai) è plurale pur derivando da Mykēnē, eroina eponima, non una dea maggiore. Difficile immaginare che una figura mitologica secondaria creasse ambiguità tale da richiedere pluralizzazione.
E Delfi (Δελφοί, Delphoí), come detto, è plurale maschile pur non derivando direttamente da Apollo. La teoria dell’omonimia funziona bene per Atene, meno per altri casi.
Forse la verità sta in una stratificazione di cause:
- Substrato arcaico: eredità linguistica pre-greca che prediligeva plurali toponomastici (base morfologica)
- Frammentazione territoriale: città nate da sinecismo di villaggi (motivazione storico-urbanistica)
- Pluralità sacrale: luoghi di culto multipli dedicati alla divinità eponima (rinforzo religioso)
- Disambiguazione divina: mantenimento/rafforzamento del plurale quando il nome coincideva con divinità importanti (funzione pragmatica)
Nel caso di Atene tutti e quattro i fattori convergerebbero. La città era frammentata in demi, aveva substrato pelasgico, aveva templi multipli dedicati ad Atena, e portava il nome della principale dea poliade – il plurale risolveva contemporaneamente quattro problemi. Una soluzione multifunzionale, elegante nella sua economia linguistica.
L’evidenza epigrafica: tre livelli ontologici
Le iscrizioni lo confermano: nei decreti, nelle stele, nelle monete c’è netta separazione. Quando si invoca la protezione divina appare Ἀθηνᾶ (Athēnâ, la dea). Quando si indica l’entità politica, il dêmos, la cittadinanza collettiva, compare Ἀθῆναι (Athênai). Non è casuale: è codificato. Un po’ come distinguiamo “la Corona” (istituzione) da “la regina” (persona) – stesso campo semantico, grammatica diversa per livelli ontologici diversi.
E c’è un dettaglio gustoso: gli ateniesi usavano οἱ Ἀθηναῖοι (hoi Athēnaîoi, “gli Ateniesi”) al plurale maschile per indicare i cittadini, ma quando volevano dire “Atene” come soggetto politico-istituzionale usavano anche ἡ πόλις τῶν Ἀθηναίων (“la città degli Ateniesi”) al singolare. Avevano quindi tre registri:
- Athēnâ (singolare femminile): la dea
- Athênai (plurale femminile): il territorio urbano, la città fisica
- hē pólis + genitivo plurale: l’entità politica astratta (singolare!)
Una tassonomia ontologica tutta giocata sulla morfologia. I greci, che problemi di ambiguità li prendevano sul serio. Ogni livello di realtà aveva la sua grammatica: divino, geografico, politico. Confonderli sarebbe stato non solo scorretto linguisticamente, ma pericoloso sul piano religioso e concettuale.
Il passaggio al singolare: modernizzare l’arcaico
La vera domanda è: perché il greco moderno ha singolarizzato Atene? Già in epoca romana c’era oscillazione – Athenae al plurale conviveva con forme singolari collettive.
Ma la svolta definitiva arriva nell’Ottocento, con la rifondazione dello stato greco dopo secoli di dominio ottomano. La katharevousa, la lingua “pura” inventata per ripulire il greco moderno dai turchismi e riallacciarlo all’antico, operò una paradossale “modernizzazione dell’arcaico”: Αθήναι diventò Αθήνα. Singolare, netta, moderna.
Come se la città, per diventare capitale di uno stato-nazione, dovesse smettere di essere un’accozzaglia di quartieri e presentarsi come entità unitaria. Il plurale suonava troppo frammentato, troppo medievale. Anche altri toponimi seguirono: le Tebe divennero Tebe, le Micene divennero Micene. Solo in registri letterari arcaizzanti sopravvive il vecchio plurale – un po’ come noi diciamo “Fiorenza” quando vogliamo suonare danteschi.
Perché il moderno ha appiattito tutto
Il greco moderno, singolarizzando Atene in Αθήνα (Athína), ha creato una nuova omonimia con la dea – ma stavolta non importa più. In una società secolarizzata, dove nessuno rischia confusione tra “vado ad Atena” (luogo) e “prego Atena” (culto), la disambiguazione morfologica perde utilità.
Anzi, avere città e dea con lo stesso nome rafforza l’identità simbolica: Atene è Atena, la città incarna la dea. Nel mondo antico questa sovrapposizione era pericolosa, sconfinava nell’hubris. Nel mondo moderno è marketing identitario.
Il paradosso è che abbiamo perso proprio ciò che rendeva sofisticato il sistema greco: la capacità di tenere distinti piani di realtà attraverso la grammatica. Loro sapevano che chiamare un luogo con lo stesso nome di una potenza divina richiedeva precauzioni linguistiche. Noi mettiamo tutto al singolare e confondiamo allegramente metafore geografiche con entità mitologiche. Progresso, suppongo.
Geografia dell’indecisione
C’è qualcosa di malinconico in questo passaggio. Il plurale toponomastico aveva una sua eleganza: ammetteva che una città non è un punto, è un insieme di luoghi, memorie, strati. Dire “le Atene” era riconoscere che l’Acropoli e il Pireo, il Ceramico e l’Agorà non sono la stessa cosa, anche se stanno dentro lo stesso perimetro murario.
Il singolare moderno ha vinto per esigenze di chiarezza amministrativa, ma ha perso qualcosa: la capacità di dire che i luoghi non sono mai univoci, e che sovrapporre senza distinzioni il divino e l’urbano può creare cortocircuiti semantici pericolosi.
Forse dovremmo rispolverare il plurale per città che ne avrebbero bisogno. Le Napoli, per dire: quartieri spagnoli, Vomero, centro storico, waterfront – mondi diversi sotto lo stesso nome. Le Genova: caruggi, porto, collina, Levante e Ponente che non si parlano. O le Palermo, stratificata di arabo, normanno, barocco spagnolo. Ma ormai siamo troppo razionali, troppo catastali. Una città, un nome, un punto sulle mappe.
Gli antichi avevano meno certezze, ma forse vedevano più chiaro. Sapevano che quando geografia, politica e teologia si intrecciano, serve una grammatica abbastanza sofisticata da tenerle separate. Il plurale non era indecisione: era precisione.
Noi l’abbiamo scambiato per arcaismo e l’abbiamo buttato via. Rimane l’ironia finale: mentre gli ateniesi chiamavano la loro città al plurale per evitare di confonderla con la dea, Roma – che davvero nasceva da sette colli – restava ostinatamente singolare. Forse perché i romani, di divinità tutelari, ne avevano troppe per stare a fare distinzioni morfologiche. O forse perché Roma, fin da subito, sapeva di essere una – e quando sai chi sei, la grammatica è solo un dettaglio.
Riferimenti
- Buck, C. D., The Greek Dialects (1955) – analisi dei plurali toponomastici in dialetti arcaici
- Travlos, J., Pictorial Dictionary of Ancient Athens (1971) – per la topografia frammentata dell’Atene arcaica
- Beekes, R., Etymological Dictionary of Greek (2010) – substrato pre-greco e relitti linguistici
- Mackridge, P., Language and National Identity in Greece (2009) – passaggio al singolare nella katharevousa ottocentesca
- Parker, R., Athenian Religion: A History (1996) – uso di Athēnâ vs Athênai in contesti cultuali ed epigrafici
- Hansen, M. H., Polis: An Introduction to the Ancient Greek City-State (2006) – terminologia politica e distinzioni istituzionali
- Threatte, L., The Grammar of Attic Inscriptions (1980-1996) – analisi morfologica di toponimi in iscrizioni ufficiali

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