Come l’Italia Regola l’Intelligenza Artificiale Senza Toccare il Potere
“Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima”. Le parole di Tancredi di Falconeri risuonano con particolare chiarezza osservando il Disegno di Legge sull’intelligenza artificiale approvato dal Senato italiano nel marzo 2025. Un provvedimento che, nel suo voler essere rivoluzionario, si rivela invece un perfetto esempio di come l’Italia sappia trasformare l’innovazione tecnologica in conservazione degli equilibri di potere.
La Messinscena dell’Avanguardia
L’Italia si presenta come il primo paese dell’Unione Europea ad avere una legge nazionale “allineata” all’Atto europeo sull’intelligenza artificiale. Un primato che suona bene nei comunicati stampa e che permette alla classe politica di rivendicare una presunta lungimiranza. Ma è proprio qui che si cela il primo inganno: l’Italia non sta guidando l’innovazione, sta inseguendo la regolamentazione.
La differenza è sostanziale. Mentre Stati Uniti e Cina competono sullo sviluppo dei modelli di intelligenza artificiale più avanzati, e altre nazioni europee investono miliardi in ricerca e infrastrutture, l’Italia si concentra nel ri-regolamentare a livello nazionale quello che l’Europa ha già normato. È come se, durante la corsa allo spazio, avessimo deciso di eccellere nella stesura di manuali di sicurezza per razzi costruiti da altri.
L’Arte Italiana del Compromesso Immobile
Il DDL AI rivela un virtuosismo tutto italiano nel creare l’illusione del cambiamento senza toccare le dinamiche reali. Prendiamo l’obbligo di trasparenza nel reclutamento: le aziende dovranno informare i candidati che i loro curricula “potrebbero essere valutati tramite sistemi di intelligenza artificiale”. Un avviso che si affiancherà ai già ignorati biscotti digitali e alle informative sulla riservatezza, creando quello che potremmo definire il museo degli avvisi inutili.
La supervisione umana obbligatoria in settori come sanità, giustizia e lavoro suona rassicurante, ma nasconde una realtà più prosaica: dato che l’Italia non produce tecnologie di intelligenza artificiale avanzate, stiamo essenzialmente regolamentando l’uso di strumenti sviluppati altrove. È come se il Regno delle Due Sicilie avesse emanato severe norme sulla costruzione delle ferrovie mentre gli ingegneri inglesi posavano i binari.
Il Paradosso della Sovranità Digitale
Particolarmente rivelatore è l’obbligo per i sistemi di intelligenza artificiale destinati alla pubblica amministrazione di utilizzare server situati in territorio italiano. Una disposizione che viene presentata come tutela della sovranità digitale, ma che in realtà codifica la nostra dipendenza tecnologica.
Chi vuole vendere intelligenza artificiale allo Stato italiano dovrà investire in infrastrutture locali, creando posti di lavoro e indotto. Un risultato positivo, certo, ma che conferma il nostro ruolo di mercato di sbocco piuttosto che di centro di innovazione. È la versione digitale della politica delle “viti dorate”: attirare investimenti esteri offrendo vantaggi fiscali e normativi, senza mai mettere in discussione la dipendenza strutturale.
Le Agenzie del Controllo Apparente
La governance del nuovo sistema viene affidata all’Agenzia per l’Italia Digitale e all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale. Due enti che, pur nelle loro competenze specifiche, rappresentano il classico modello italiano dell’autorità senza potere reale. Potranno vigilare, sanzionare, emettere linee guida, ma non potranno influenzare le scelte strategiche delle multinazionali che controllano lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
È la versione contemporanea del prefetto ottocentesco: rappresenta lo Stato centrale, ha autorità formale riconosciuta, ma i veri poteri economici si decidono altrove. Le agenzie italiane potranno multare chi non rispetta gli obblighi di trasparenza, ma non potranno impedire che i dati degli italiani vengano processati da algoritmi sviluppati a San Francisco o Shenzhen secondo logiche che sfuggono completamente al controllo nazionale.
Il Teatro delle Opposizioni Funzionali
Anche le critiche al DDL seguono un copione prestabilito. Le associazioni per i diritti digitali si lamentano che la legge è “troppo debole”, le opposizioni parlamentari accusano il governo di non aver stanziato risorse sufficienti. Tutti discutono di quanto regolamentare, nessuno si chiede se questo tipo di regolamentazione abbia senso strategico.
È il trionfo del dibattito nei binari: si può criticare l’intensità dell’intervento normativo, ma non la sua logica di fondo. Che l’Italia debba rincorrere l’innovazione altrui viene dato per scontato; si discute solo di come farlo meglio. Come se, nel 1861, il dibattito politico si fosse concentrato su quale fosse il modo migliore per adeguarsi alle ferrovie inglesi, senza mai considerare la possibilità di sviluppare una propria ingegneria dei trasporti.
L’Ironia della Democrazia Protetta
Tra le modifiche introdotte dalla Camera spicca l’introduzione di tutele specifiche contro l’uso improprio dell’intelligenza artificiale nel dibattito democratico. Una norma che, in astratto, appare sacrosanta: proteggere le elezioni dalla manipolazione algoritmica è un obiettivo condivisibile.
Ma anche qui si cela il paradosso gattopardesco. Proteggiamo la democrazia italiana dall’influenza di algoritmi stranieri usando algoritmi stranieri. Le piattaforme digitali che dovranno implementare questi controlli utilizzano tecnologie sviluppate dalle stesse aziende che hanno creato i problemi che vogliamo risolvere. È come affidare la sorveglianza del pollaio alla volpe, purché indossi l’uniforme dell’ispettore sanitario.
La Strategia dell’Adeguamento Perpetuo
Il DDL prevede che il governo adotti una strategia nazionale aggiornata ogni due anni, con monitoraggio annuale al Parlamento. Un meccanismo che appare dinamico e responsivo, ma che in realtà istituzionalizza l’inseguimento. Ogni due anni l’Italia si propone di adeguare la propria strategia agli sviluppi tecnologici decisi altrove.
È l’opposto di una visione strategica autonoma. Invece di definire obiettivi di lungo termine e percorsi per raggiungerli, ci si condanna a un eterno aggiornamento delle proprie ambizioni in base a quello che fanno gli altri. Come se Olivetti avesse programmato di aggiornare ogni biennio la propria strategia industriale in base alle innovazioni di IBM, invece di cercare di anticiparle.
I Disclaimer del Consenso
Il risultato più tangibile e immediato del DDL sarà probabilmente la proliferazione di avvisi sui siti aziendali. “Attenzione: il tuo curriculum potrebbe essere valutato tramite sistemi di intelligenza artificiale.” Un’informativa che si affiancherà alle centinaia di altre che già bombardano gli utenti digitali, creando quello che potremmo definire il folclore burocratico dell’era digitale.
Questi avvisi assolveranno una funzione principalmente simbolica: permetteranno alle aziende di dire di aver rispettato la legge e ai cittadini di sentirsi informati, senza che nessuno abbia realmente più controllo sui processi automatizzati che governano sempre più aspetti della vita quotidiana. È la versione contemporanea del modulo da firmare: una firma che non cambia la sostanza, ma che rassicura tutti sulla correttezza formale della procedura.
Il Futuro del Presente Immobile
Il DDL sull’intelligenza artificiale rappresenta un capolavoro di innovazione conservatrice. Crea nuove istituzioni, introduce nuove norme, apre nuove prospettive, ma lascia inalterata la struttura dei rapporti di forza nell’economia digitale. L’Italia continuerà a essere un mercato per tecnologie sviluppate altrove, le multinazionali continueranno a dettare i ritmi dell’innovazione, i cittadini continueranno a subire decisioni prese da algoritmi che non controllano.
La vera sfida non era regolamentare l’intelligenza artificiale, ma creare le condizioni perché l’Italia potesse competere nel suo sviluppo. Non proteggere i lavoratori dall’automazione, ma formare quelli che progettano gli automatismi. Non vigilare sui dati, ma costruire le infrastrutture per elaborarli.
Ma questa sarebbe stata una rivoluzione vera. E le rivoluzioni vere sono sempre più complicate delle riforme apparenti.
Appendice: Come Dovrebbe Essere Una Legge Seria sull’Intelligenza Artificiale
Se l’Italia volesse davvero competere nell’era dell’intelligenza artificiale invece di limitarsi a regolamentarne l’uso, il DDL dovrebbe essere strutturato in modo radicalmente diverso. Non più un’elencazione di divieti e obblighi informativi, ma un piano strategico nazionale con obiettivi misurabili, risorse concrete e scadenze vincolanti.
Il Pilastro degli Investimenti Strutturali
Una legge seria partirebbe da stanziamenti massicci e pluriennali. Non la solita “clausola di invarianza finanziaria”, ma almeno 5 miliardi di euro distribuiti su dieci anni per:
- Infrastrutture computazionali sovrane: Data center pubblici con capacità di calcolo avanzato, non dipendenti da fornitori esteri per i servizi critici dello Stato
- Centri di ricerca pubblico-privati: Istituti dedicati allo sviluppo di modelli di intelligenza artificiale, con focus su settori dove l’Italia può essere competitiva (manifatturiero, agroalimentare, beni culturali)
- Acquisizione di talenti: Programmi per attrarre e formare ricercatori di livello mondiale, con stipendi competitivi a livello internazionale
La Strategia dei Campioni Nazionali
Invece di limitarsi a vigilare sulle multinazionali estere, una legge strategica dovrebbe prevedere la creazione di campioni nazionali dell’intelligenza artificiale:
- Fondo sovrano per l’innovazione: 2 miliardi per partecipazioni strategiche in aziende che sviluppano tecnologie di intelligenza artificiale
- Commesse pubbliche riservate: Obbligo per la pubblica amministrazione di utilizzare prioritariamente soluzioni sviluppate in Italia o Europa, quando disponibili
- Protezione della proprietà intellettuale: Registro nazionale dei brevetti in intelligenza artificiale con procedure accelerate e costi ridotti
Il Capitale Umano Come Priorità Assoluta
Il vero collo di bottiglia dell’Italia non è normativo, ma formativo. Una legge seria dovrebbe trasformare radicalmente il sistema educativo:
- Informatica obbligatoria: Dall’elementare all’università, con focus su programmazione, statistica e comprensione degli algoritmi
- Riqualificazione di massa: 100.000 lavoratori all’anno formati su tecnologie di intelligenza artificiale, con corsi finanziati dallo Stato
- Dottorati industriali: 1.000 borse di studio annue per dottorati in intelligenza artificiale svolti in partnership tra università e aziende
Gli Incentivi per l’Ecosistema dell’Innovazione
Invece di moltiplicare gli obblighi burocratici, una legge strategica dovrebbe creare un ecosistema favorevole all’innovazione:
- Credito d’imposta potenziato: Detrazione del 200% per spese in ricerca e sviluppo di intelligenza artificiale
- Zone economiche speciali digitali: Aree geografiche con tassazione agevolata per aziende che sviluppano tecnologie di intelligenza artificiale
- Semplificazione normativa: Procedura unica per autorizzazioni, licenze e permessi per aziende innovative
Il Coordinamento Strategico Europeo
L’Italia da sola non può competere con Stati Uniti e Cina, ma può guidare un’iniziativa europea:
- Alleanza tecnologica mediterranea: Accordi bilaterali con Francia, Spagna e Portogallo per sviluppare progetti comuni
- Lobby attiva a Bruxelles: Influenzare la normativa europea per favorire lo sviluppo di campioni continentali
- Condivisione delle infrastrutture: Accordi per l’uso comune di supercalcolatori e banche dati tra paesi alleati
La Misurazione del Successo
Una legge seria dovrebbe includere obiettivi quantitativi verificabili:
- Brevetti: Portare l’Italia tra i primi 5 paesi europei per brevetti registrati in intelligenza artificiale entro il 2030
- Unicorni tecnologici: Almeno 3 aziende italiane dell’intelligenza artificiale con valutazione superiore al miliardo di euro entro il 2032
- Occupazione qualificata: 50.000 nuovi posti di lavoro ad alta specializzazione nel settore entro il 2035
- Bilancia commerciale: Raggiungere il pareggio tra importazione ed esportazione di servizi di intelligenza artificiale entro il 2040
Il Controllo Democratico Sostanziale
Invece di creare nuove agenzie di vigilanza, una legge strategica dovrebbe prevedere:
- Commissione parlamentare permanente: Con poteri d’inchiesta e bilancio autonomo per monitorare l’attuazione degli investimenti
- Relazione annuale vincolante: Il governo deve giustificare ogni scostamento dagli obiettivi quantitativi
- Consultazione permanente: Tavolo tecnico con rappresentanti di università, aziende e sindacati per adeguare la strategia agli sviluppi tecnologici
Il Passaggio dal Controllo al Controllo
La differenza fondamentale tra il DDL attuale e una legge seria è nel cambio di paradigma: da “come controllare l’intelligenza artificiale” a “come controllare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale”. Non più subire l’innovazione regolamentandola, ma guidarla investendo sui suoi fattori critici di successo.
Una legge così strutturata trasformerebbe l’Italia da mercato di sbocco per tecnologie altrui a protagonista dello sviluppo tecnologico mondiale. Richiederebbe investimenti ingenti, visione di lungo termine e la capacità di sacrificare consenso immediato per vantaggi strategici futuri.
Cose che, ammettilo, suonano estranee alla tradizione politica italiana. Ma forse è proprio questo il punto: per competere nell’era dell’intelligenza artificiale, bisogna essere disposti a tradire la propria tradizione gattopardesca. Altrimenti si finisce per regolamentare perfettamente la propria irrilevanza.
Il Gattopardo digitale continua la sua corsa, cambiando tutto nell’ordinamento giuridico per non cambiare niente negli equilibri di potere. E forse, alla fine, è proprio questo il vero talento italiano: saper trasformare ogni innovazione in tradizione, ogni cambiamento in continuità. Anche nell’era dell’intelligenza artificiale, rimaniamo maestri nell’arte di restare al passo senza mai correre davvero.

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