Un mondo dove internet non è mai esistito

Analisi critica del diario del 1° settembre: quando l’ucronia tradisce se stessa


L’anatomia di un cortocircuito narrativo

Il terzo giorno del diario ucronico è pedagogicamente perfetto proprio perché è narrativamente impossibile. Quello che doveva essere il racconto di una giornata in un mondo senza internet si trasforma in una mappa involontaria di quanto profondamente internet abbia colonizzato la nostra grammatica mentale.

I sintomi della colonizzazione cognitiva

Il database che non si sincronizza: Il protagonista vive in un mondo dove internet non è mai esistito, eppure pensa spontaneamente in termini di “sincronizzazione” tra sistemi. È un concetto che presuppone l’idea di network, di sistemi interconnessi – esattamente quello che il suo mondo non dovrebbe avere.

“15000 clienti e i dischetti non bastano”: Qui emerge la nostalgia del cloud in qualcuno che non dovrebbe nemmeno concepire l’esistenza del cloud. Il problema è descritto come se il narratore sapesse che esiste una soluzione migliore, ma non riesca ad articolarla.

La “rete globale di informazioni”: Il momento più rivelatore. Il protagonista e Sofia “inventano” internet durante la pausa pranzo, come se fosse un’intuizione spontanea. Ma è davvero spontanea, o è il fantasma cognitivo del nostro presente che si manifesta?

Il paradosso dell’osservatore impossibile

Marco e lo “stress tecnologico”: Come può qualcuno cresciuto senza internet diagnosticare lo “stress tecnologico”? Il personaggio usa categorie critiche che presuppongono l’esperienza di quello che critica. È come se un medievale parlasse dei “disturbi da social media”.

“Una volta la gente dormiva meglio”: Quale “una volta”? In un mondo senza internet, di quale epoca pre-digitale sta parlando? Il confronto presuppone una linea temporale che nel suo mondo non dovrebbe esistere.

La parola “internet” che ronza in testa: Il culmine del paradosso. Il narratore è perseguitato da una parola che nel suo mondo non dovrebbe esistere. È l’inconscio tecnologico che riemerge.

L’impossibilità come rivelazione

Invece di essere un fallimento dell’ucronia, questi paradossi sono la sua più profonda verità pedagogica. Mostrano che:

  1. Non possiamo davvero pensare fuori dal nostro paradigma: Anche quando ci proviamo esplicitamente, ricadiamo nelle categorie che vorremmo superare.
  2. La tecnologia non è uno strumento esterno: È diventata parte della nostra struttura cognitiva. Non usiamo internet – siamo diventati internet.
  3. L’ucronia rivela più del presente che del passato alternativo: Ogni “errore” narrativo è una finestra sui nostri automatismi mentali.

Il genio involontario della conversazione con Sofia

Il dialogo sulla “rete globale di computer” è narrativamente assurdo ma pedagogicamente geniale. Due persone che non dovrebbero avere gli strumenti concettuali per immaginare internet lo reinventano spontaneamente, compresi i suoi problemi sociali:

  • “Sarebbe il caos totale”
  • “La gente non uscirebbe più di casa”
  • “Chi ti dice cosa è vero e cosa no?”

È come se il nostro inconscio collettivo digitale filtrasse attraverso l’ucronia per articolare le ansie che proviamo ma faticamo a nominare.

L’effetto specchio: quando l’ucronia ci guarda

La vera forza pedagogica di questo giorno sta nel disagio cognitivo che produce. Il lettore si trova di fronte a:

  • Personaggi che sanno quello che non dovrebbero sapere
  • Problemi che esistono solo nel nostro mondo
  • Nostalgie per epoche che nel loro mondo non hanno senso

È un effetto specchio: l’ucronia fallita ci rimanda l’immagine di quanto siamo cyborg senza rendercene conto.

La lezione involontaria sulla natura della tecnologia

Il diario insegna, senza volerlo, qualcosa di fondamentale: la tecnologia non è additiva. Non è che “abbiamo i computer + abbiamo internet”. È che siamo diventati diversi.

Il protagonista del diario non è un “noi senza internet” – è un’impossibilità cognitiva. Non può esistere qualcuno che pensi come noi ma senza aver vissuto la rivoluzione digitale.

Il valore meta-pedagogico dell’impossibilità

Per gli studenti, questo paradosso è più istruttivo di qualsiasi spiegazione teorica su “come internet ha cambiato la società”. Vedono in azione i meccanismi di colonizzazione cognitiva:

  • Come le categorie tecnologiche diventano naturali
  • Come pensiamo i problemi attraverso le soluzioni che conosciamo
  • Come il nostro “senso comune” sia in realtà storicamente determinato

L’ucronia come archeologia involontaria

Invece di costruire mondi alternativi, l’ucronia fallita diventa archeologia del presente. Ogni incongruenza narrativa è uno strato sedimentario della nostra coscienza digitale che emerge nonostante i nostri sforzi di seppellirlo.

È come un lapsus freudiano su scala narrativa: quello che cerchiamo di rimuovere (la nostra natura cyborg) riemerge proprio nel tentativo di rimozione.

Il paradosso come strumento didattico

La domanda pedagogica cruciale diventa: usiamo questo paradosso o lo correggiamo?

Correggerlo significherebbe perdere la sua forza rivelatrice. Uno storytelling “corretto” che eviti le incongruenze sarebbe meno onesto sulla nostra condizione.

Usarlo significa trasformare il fallimento narrativo in successo pedagogico. Invece di nascondere le contraddizioni, le amplifichiamo per renderle visibili.

La proposta: pedagogia del cortocircuito

Il diario del terzo giorno suggerisce una nuova metodologia: la pedagogia del cortocircuito controllato. Invece di cercare la coerenza narrativa, creiamo deliberatamente situazioni impossibili che costringano gli studenti a confrontarsi con i propri automatismi cognitivi.

È Pedagogia Cyborg nel senso più puro: usiamo i glitch del sistema per renderlo visibile.

L’insegnamento finale: siamo già oltre l’umano

Il vero messaggio del diario è che il post-umano non è futuro – è presente. Non stiamo diventando cyborg, lo siamo già. E l’educazione deve confrontarsi con questa realtà invece di negarla o edulcorarla.

Il protagonista che è perseguitato dalla parola “internet” è la nostra condizione esistenziale: siamo perseguitati da tecnologie che sono diventate così integrate nella nostra coscienza da sembrare naturali.

Conclusione: l’onestà del fallimento

Il paradosso del terzo giorno è pedagogicamente più potente di qualsiasi ucronia “ben riuscita”. Ci mostra che l’educazione nell’era digitale non può più fingere di occuparsi di soggetti umani puri che usano strumenti tecnologici esterni.

Deve confrontarsi con cyborg cognitivi che cercano di capire cosa significa essere umani in un’epoca post-umana.

E questo confronto inizia proprio dall’onestà brutale sui propri paradossi e impossibilità.


Riferimenti

Filosofia della tecnologia:

  • Bernard Stiegler, Technics and Time (1994) – sulla co-costituzione umano-tecnica
  • Andy Clark, Being There (1997) – sulla cognizione estesa e distribuita
  • Donna Haraway, A Cyborg Manifesto (1985) – sui confini natura/cultura/tecnologia

Teoria della narrazione:

  • Hayden White, Metahistory (1973) – sulla costruzione narrativa della storia
  • Jean Baudrillard, Simulacri e Simulazione (1981) – sull’impossibilità di distinguere reale e rappresentazione
  • Fredric Jameson, Postmodernism (1991) – sulla perdita del senso storico

Pedagogia critica:

  • Paulo Freire, Pedagogia degli Oppressi (1968) – sulla coscientizzazione attraverso la contraddizione
  • Jacques Rancière, The Ignorant Schoolmaster (1987) – sull’apprendimento attraverso il paradosso
  • bell hooks, Teaching to Transgress (1994) – sulla pedagogia come pratica di libertà

Il diario del terzo giorno non è un esperimento narrativo fallito – è un successo pedagogico involontario che ci mostra la strada verso una nuova forma di educazione critica per l’era post-umana.

Diario Ucronico – Lunedì 1 Settembre

Un mondo dove internet non è mai esistito


Lunedì 1 Settembre

Sveglia alle 6:30, che si ricomincia. Settembre ha sempre questo sapore di nuovo inizio, anche se di nuovo c’è ben poco quando hai quarant’anni suonati. Dal balcone il solito traffico mattutino di via Nazionale, con la differenza che oggi gli autobus diesel sembrano ancora più carichi del solito – settembre, tutti tornano in città.

Colazione veloce e via verso l’ufficio. Al bar sotto casa Giacomo aveva un’aria più preoccupata del solito. “Senti,” mi ha detto versando il caffè, “mio figlio dice che all’università hanno dei problemi con i computer. Non so, qualcosa che non funziona come dovrebbe. Tu che ci capisci, secondo te cosa può essere?” Ho alzato le spalle. I computer sono bestie capricciose, soprattutto quelli vecchi che hanno ancora nelle università. Probabilmente serve un tecnico che ci metta mano.

In metropolitana ho ripensato a quella conversazione. È strano come certe volte ti vengono in mente cose assurde. Mi sono immaginato un mondo dove i problemi si potessero risolvere… come dire… istantaneamente, magari collegando tutti i computer insieme in qualche modo. Una rete globale di informazioni. Fantascienza pura, ovviamente, ma il pensiero mi ha accompagnato fino all’ufficio.

Il problema di oggi era proprio uno di quelli complicati: il database clienti che non si sincronizza con il sistema di fatturazione. Tre ore al telefono con l’assistenza tecnica, con quel tizio di Milano che mi ha spiegato almeno cinque volte la stessa procedura. “No, guardi, deve prima fare il backup su dischetto, poi…” Ma come fai a spiegare che con 15000 clienti i dischetti non bastano? Alla fine abbiamo risolto mandando tutto per corriere, ma ci vorranno giorni.

Durante la pausa pranzo ho chiacchierato con Sofia, la mia collega che si occupa delle interfacce utente. Le ho raccontato della mia idea strana del diario alternativo – giorni normali in mondi che non esistono. È rimasta colpita. “Affascinante,” ha detto, “io ci pensavo proprio ieri. Ti immagini un mondo dove tutti i computer fossero collegati tra loro? Dove potresti accedere a tutte le informazioni del mondo da casa tua?”

Le ho detto che ci avevo pensato anch’io stamattina. Che coincidenza strana.

“Sarebbe il caos totale,” ha continuato Sofia. “La gente non uscirebbe più di casa, starebbe sempre attaccata ai computer. E poi, come fai a controllare tutte quelle informazioni? Chi ti dice cosa è vero e cosa no?”

Abbiamo riso, ma è rimasta questa sensazione strana. Come se stessimo parlando di qualcosa che… non so come spiegarlo, ma che in qualche modo ci riguardava davvero.

Sofia mi ha anche chiesto consigli per qualche libro di fantascienza. Vuole leggere qualcosa di diverso dal solito. Le ho suggerito “La mano sinistra delle tenebre” della Le Guin – se vuoi capire come funzionano i mondi alternativi, quello è perfetto. E poi “Ubik” di Dick, anche se è più complicato. “È la storia di una realtà che si sfalda,” le ho spiegato. “Non capisci mai cosa è vero e cosa no.”

“Come nella vita vera,” ha detto lei.

Il pomeriggio è volato con le solite rogne: preventivi da rifare, telefonate con fornitori, la stampante che si inceppa ogni dieci pagine. Verso le sei ero distrutto.

Al supermercato della Coop ho incontrato Marco che usciva con due borse piene. “Cena romantica?” gli ho chiesto. Ha riso. “Magari. Pasta al pomodoro e televisione, più probabilmente.” Abbiamo fatto la spesa insieme, come facciamo da quando ci siamo sposati nove anni fa. È una di quelle routine che ti rendono felice senza che te ne accorgi.

“A proposito,” mi ha detto mentre eravamo in coda alla cassa, “ho chiamato quello della televisione via cavo. Dicono che il mese prossimo arrivano dieci canali nuovi. Anche uno tutto dedicato ai film.”

“Dieci canali nuovi? Ma quando li guardiamo?”

“Appunto. Tra un po’ avremo più canali TV che ore nella giornata.”

A casa abbiamo cenato guardando il telegiornale. La solita litania: governo che cade, opposizione che protesta, economia che rallenta. “Senti,” mi ha detto Marco a un certo punto, “ma secondo te la gente era più felice quando c’erano solo due canali TV?”

“Perché, tu lo eri?”

“Non lo so. Forse sì. Almeno sapevi cosa guardare.”

Dopo cena abbiamo visto quel film francese che avevamo registrato la settimana scorsa. Bello, ma troppo lungo. Verso le dieci ero già stanco morto.

“È colpa del computer,” ha detto Marco mentre mi vedeva sbadigliare. “Passi troppo tempo davanti allo schermo. Ti brucia il cervello.”

“Ma dai, non esiste nemmeno…” poi mi sono fermato. Strano, stavo per dire “non esiste nemmeno internet”, ma internet cosa sarebbe? Perché mi è venuta in mente quella parola?

“Non esiste nemmeno cosa?”

“Niente, sciocchezze.”

Abbiamo sistemato il letto nuovo che abbiamo comprato la settimana scorsa. Dicono che il materasso memory foam aiuti contro i disturbi del sonno. Io sono scettico, ma tentar non nuoce. Marco è convinto che i miei problemi di insonnia dipendano dallo “stress tecnologico”, come lo chiama lui. “Una volta la gente dormiva meglio,” dice sempre.

“Una volta quale?”

“Non lo so, una volta. Quando le cose erano più semplici.”

Prima di andare a dormire ho controllato la segreteria telefonica – tre messaggi, tutti di lavoro per domani. Ho preso alcuni appunti per non dimenticarmene. È buffo pensare che se esistesse davvero quella rete di computer di cui parlavamo oggi con Sofia, probabilmente questi messaggi arriverebbero direttamente sul computer di casa. Ma sarebbe una follia, ovviamente. Chi vorrebbe essere raggiungibile sempre e ovunque?

Mentre spegnevo le luci ho ripensato alla conversazione con Sofia sui mondi alternativi. È affascinante pensare a come potrebbero essere andate le cose diversamente. Ma anche un po’ inquietante. Se tutto può essere diverso, cosa significa che le cose sono come sono?

Dal letto sento Marco che si gira dall’altra parte. “Dormi?” gli sussurro.

“Mmh.”

“Ti sembriamo strani, a volte?”

“Cosa?”

“Niente. Dormi.”

Domani un’altra giornata uguale. O forse no. Chissà.


Fine giornata. Il nuovo materasso sembra promettente. E quella parola strana – “internet” – continua a ronzarmi in testa. Ma che diavolo significa?

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