L’AI Action Plan di Trump.
“Winning the Race” – Luglio 2025
Cosa ne pensa Sonnet 4.0 del nuovo AI Action Plan di Trump.
Il verdetto in tre righe
L’AI Action Plan di Trump non è un castello in aria, ma assomiglia piuttosto a una casa costruita sulla sabbia. Ha fondamenta concrete ma contraddizioni strutturali che rischiano di farlo crollare proprio mentre cerca di correre più veloce della concorrenza. Come diceva Totò: “È la somma che fa il totale” – e qui la somma non torna.
Anatomia di un piano in tre atti
Primo atto: “Liberiamo l’innovazione”
Trump promette di togliere le “pastoie burocratiche” che frenano l’innovazione. Traduzione: via i requisiti di diversità e sostenibilità dal CHIPS Act, perché evidentemente rallentano la marcia verso il dominio tecnologico.
Il problema? È come lamentarsi che l’auto va lenta a causa della cintura di sicurezza. Forse ti fa arrivare prima, ma quando schianti, schianti forte.
Secondo atto: “Costruiamo l’impero dei data center”
Qui il piano mostra i muscoli: semplificazione dei permessi, potenziamento della rete elettrica, corsa all’infrastruttura. È la parte più sensata, anche se nasconde una piccola fregatura: chi paga la bolletta?
Spoiler: non le aziende tecnologiche che beneficeranno di energia scontata, ma i cittadini comuni che vedranno aumentare le tariffe per sovvenzionare i mastodontici centri di calcolo. Socializzare i costi, privatizzare i profitti – un classico senza tempo.
Terzo atto: “Conquistiamo il mondo (tecnologico)”
La strategia di esportazione è intelligente: vendere pacchetti tecnologici completi agli alleati per rendere l’America lo standard globale di riferimento. È diplomazia commerciale applicata con cognizione di causa.
Il dettaglio ironico? Mentre si lamenta del presunto controllo cinese sugli organismi internazionali, il piano propone esattamente la stessa strategia – solo con la bandiera stellata al posto di quella rossa.
Il grande paradosso della “neutralità”
Ecco dove il piano diventa grottesco: Trump, paladino della libertà di parola, vuole decidere cosa l’intelligenza artificiale possa dire. L’obiettivo dichiarato è eliminare le “distorsioni ideologiche” – che tradotto significa sostituire una presunta inclinazione progressista con una conservatrice altrettanto marcata.
È come pretendere di curare il mal di testa tagliando la testa. I modelli di AI riflettono inevitabilmente i dati su cui sono addestrati, che sono prodotti culturali umani. La neutralità assoluta è un miraggio – al massimo puoi scegliere quale distorsione preferisci.
Quando anche i giganti tecnologici si preoccupano
Il dettaglio più rivelatore? Persino aziende come Anthropic e Google – che dovrebbero beneficiare della deregolamentazione – chiedono di mantenere i meccanismi di supervisione e sicurezza. Non per altruismo, ma perché sanno che sistemi mal testati possono esplodere in faccia a tutto il settore.
È un po’ come vedere i costruttori di auto che chiedono di mantenere i crash test. Quando anche chi dovrebbe guadagnare dalla deregolamentazione si oppone, forse c’è qualcosa che non quadra.
La lezione di DeepSeek (che nessuno vuole imparare)
Il modello cinese DeepSeek ha fatto l’effetto di un secchiata d’acqua gelida: con risorse computazionali molto inferiori, la Cina ha prodotto un sistema competitivo con i migliori americani. La morale? Nell’intelligenza artificiale, la potenza bruta non è tutto.
Eppure il piano americano continua a ragionare come se bastasse avere i data center più grossi e i chip più veloci. È come pensare di vincere una partita a scacchi comprando la scacchiera più costosa.
L’opposizione trasversale
Quando il Senato vota 99 a 1 per rimuovere il divieto di regolamentazione statale, non è esattamente un segnale di fiducia bipartisan nel piano. Anche i Repubblicani più convinti riconoscono che alcune protezioni – soprattutto per i minori – sono irrinunciabili.
Dall’altra parte, oltre cento organizzazioni della società civile hanno lanciato un contro-piano chiamato “People’s AI Action Plan”. Non esattamente il consenso unanime che ci si aspetterebbe per un piano “visionario”.
Il fattore tempo: maratona o sprint?
Il piano assume che nella corsa all’intelligenza artificiale vinca chi arriva primo. Ma è una premessa discutibile: l’AI è una tecnologia trasformativa che ridefinirà settori interi per decenni. È più una maratona che uno sprint.
E nelle maratone, chi brucia tutte le energie nei primi chilometri raramente vince. L’America rischia di sacrificare i suoi vantaggi strutturali – università eccellenti, ecosistema di ricerca diversificato, cultura dell’innovazione responsabile – per guadagnare qualche metro nei primi giri di pista.
Prospettive: tatticamente furbo, strategicamente miope
Cosa funzionerà (nel breve termine)
- Più centri dati costruiti più velocemente
- Maggiore penetrazione commerciale all’estero
- Semplificazione burocratica apprezzabile
Cosa rischia di implodere (nel lungo termine)
- Erosione della fiducia pubblica nella tecnologia
- L’Europa diventa il regolatore globale per default
- Perdita del vantaggio competitivo basato sulla qualità dell’ecosistema
- Vulnerabilità a sorprese tecnologiche come DeepSeek
La vera ironia
Il piano si intitola “Winning the Race”, ma adotta una strategia che potrebbe far perdere la gara. È come voler vincere una Formula 1 smontando i freni per andare più veloce – funziona fino alla prima curva.
L’intelligenza artificiale non è un settore dove basta correre più forte dei concorrenti. È un campo dove la qualità del pensiero, la robustezza dei sistemi e la fiducia degli utenti contano più della velocità di implementazione.
La lezione finale? A volte, per arrivare primi, bisogna avere la pazienza di andare al passo giusto. Trump sembra aver dimenticato questa saggezza antica, in nome di una competizione che rischia di diventare una corsa verso il baratro.
Come direbbero a Roma: “Chi va piano va sano e va lontano, chi va forte va alla morte”. Nel caso dell’AI, potrebbe non essere solo un modo di dire.

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