Le Stagioni dell’Anima
La memoria è un prisma che scompone il tempo in colori diversi. Ogni estate delle colonie brilla di una sua particolare tonalità: Piamprato splende come un cristallo di montagna, con il suo ruscello che cantava ninne nanne selvagge e quella biblioteca magica dove i giocattoli prendevano il posto dei libri. Marina di Massa si tinge invece di grigi più austeri, eco di un’epoca che faticava a svanire. E poi l’Estate Ragazzi a Settimo, con i suoi colori quotidiani, primo assaggio del mondo che ci aspettava.
“Udiam nella foresta il cuculo cantar” – la filastrocca dell’infanzia risuona ancora, non più come una catena sonora ma come il filo d’Arianna che ci guidava attraverso quei labirinti estivi. Ogni verso nascondeva un significato che solo il tempo ci avrebbe rivelato: la notte tenebrosa, i lupi che ululano, le renne che rispondono da lontano – era la mappa poetica delle nostre piccole odissee.
Le colonie erano microcosmi dove il mondo degli adulti cercava di replicarsi in miniatura, come quei souvenir di vetro con la neve dentro. A volte il modello era dolce e sognante, come a Piamprato dove persino la disciplina si mascherava da gioco, altre volte più rigido e severo, come a Marina di Massa dove il mare stesso veniva razionato come se l’infinito potesse essere servito a porzioni.
I giochi diventavano linguaggi segreti: le cinque pietre che volavano nell’aria come pensieri difficili da afferrare, le clik clak che mi slogavano i polsi ma ipnotizzavano la mente, gli hula hoop che disegnavano cerchi di grazia. Preferivo la gentilezza di questi rituali silenziosi alla rudezza dei giochi maschili, trovando in quella danza circolare una libertà che nessuna regola poteva contenere.
Quando chiesi un libro che parlasse di altri mondi, mi regalarono Fred Flintstone e le sue avventure preistoriche. Era il loro modo affettuoso e un po’ goffo di ricondurmi sulla terra, di suggerirmi che anche la preistoria poteva essere divertente se vista attraverso il filtro del cartone animato. Non capivano che cercavo altre strade, altri cieli, altri modi di essere.
Come Silvio Pellico trasformò la sua reclusione in una meditazione sull’anima umana, così queste colonie diventarono, ciascuna a suo modo, capitoli di un’educazione sentimentale. Non erano tanto prigioni quanto stazioni di un viaggio iniziatico: alcune accoglienti come nidi, altre severe come monasteri, tutte necessarie al percorso di crescita.
E forse è proprio questo il punto: ogni estate aggiungeva un tassello al mosaico dell’identità, ogni esperienza – dolce o amara – contribuiva a formare il disegno finale. Come il ruscello di Piamprato che continuava a cantare anche dopo che la neve del ’72 aveva sepolto la colonia, così questi ricordi continuano a fluire, portando con sé non tanto il peso della reclusione quanto la leggerezza delle possibilità infinite che solo l’infanzia sa immaginare.
L’incanto di Piamprato
Ci sono luoghi che esistono in una dimensione sospesa tra sogno e realtà. Piamprato era uno di questi: una cittadella salesiana arrampicata sulle montagne, dove l’aria sottile rendeva ogni respiro un piccolo atto di magia. A sei anni, il mondo è ancora malleabile come creta fresca, e quella colonia fu il primo stampo che gli diede una forma inaspettata.
Il campo da calcio sembrava estendersi fino all’orizzonte, una distesa verde che prometteva avventure che non avrei mai davvero desiderato vivere. Il destino, con il suo sottile senso dell’ironia, mi regalò una storta al piede – un incidente provvidenziale che mi trasformò da riluttante giocatore in osservatore privilegiato di quel teatro montano.
La biblioteca dei giocattoli era la vera meraviglia: un concetto così rivoluzionario che ancora oggi fatico a crederne l’esistenza. Come se qualcuno avesse capito che a volte le storie più belle non hanno bisogno di parole, che i giochi possono essere una forma di letteratura tridimensionale. Era il regno del possibile, dove ogni oggetto prestato conteneva universi di potenzialità.
I Lupetti, la squadra a cui ero stato assegnato, vinsero il torneo senza di me – o forse, come qualcuno suggerì sorridendo, grazie alla mia assenza strategica. Il premio era una notte in tenda, un’avventura che trasformò la filastrocca del cucù in una rappresentazione dal vivo: gli animatori che grattavano il telo fingendosi lupi, le risate nervose che si trasformavano in coraggio collettivo, la notte che non faceva più paura perché eravamo tutti insieme nel nostro piccolo fortino di tela.
“Udiam nella foresta il cuculo cantar” assumeva un significato completamente nuovo quando il buio era reale e gli alberi sussurravano storie che solo i bambini potevano comprendere. Era una forma gentile di iniziazione, un modo di insegnarci che la paura può essere addomesticata attraverso il gioco e la condivisione.
L’altro accampamento femminile, trecento metri più in alto nel bosco, era come un regno parallelo dove si praticavano arti misteriose: hula hoop che creavano cerchi perfetti nell’aria, giochi silenziosi che parlavano una lingua che istintivamente capivo. C’era una grazia in quei rituali che la rudezza dei giochi maschili non poteva eguagliare.
I gettoni colorati per il bar, le pesche sciroppate durante le gite, persino il ruscello che scorreva come una colonna sonora naturale – ogni elemento contribuiva a creare un mondo dove le regole esistevano ma non pesavano, dove la disciplina era così abilmente intrecciata con il gioco da diventare quasi invisibile.
Fu a Piamprato che imparai la prima, fondamentale lezione: la libertà non è l’assenza di confini, ma la capacità di danzare dentro di essi. Come il ruscello che trovava la sua strada tra le rocce, come le nuvole che giocavano a nascondino con le cime delle montagne, anche noi imparavamo a fluire, a adattarci, a trovare la nostra voce nel grande coro della natura.
La neve del ’72 avrebbe poi sepolto quella cittadella incantata, come se il tempo stesso avesse deciso di preservarla in un eterno inverno, proteggendola dalla corruzione del mondo moderno. Ma nei ricordi rimane intatta, sospesa in un’estate senza fine, dove anche una storta al piede poteva trasformarsi in un dono e dove ogni gioco nascondeva una lezione di vita che solo ora, a distanza di anni, riusciamo pienamente a comprendere.
Il Lager di Marina di Massa
Il mare ha molte voci, ma a Marina di Massa parlava sottovoce, come un prigioniero che conta i minuti di libertà. Cinque minuti esatti di acqua e sale, non un secondo di più. Il fischio del bagnino tagliava l’aria come una lama, dividendo il tempo in fette sottili di libertà razionata. Era come se qualcuno avesse deciso che anche l’infinito potesse essere amministrato, distribuito in dosi omeopatiche.
“La notte è tenebrosa”, cantavamo nella filastrocca, e lo era davvero nei corridoi della colonia, dove il capocamerata tesseva la sua tela d’ombra. Il donnone-suora, custode distratto di questo teatro dell’assurdo, voltava lo sguardo altrove, come se l’ignoranza potesse assolvere dalla complicità. Fu lì che imparai a dormire a pancia in giù, il viso nascosto nel cuscino – non una posizione, ma una strategia di sopravvivenza.
Ma anche nelle prigioni più austere, l’anima trova i suoi spazi di fuga. Le cinque pietre erano il nostro sistema di evasione rituale: una, due, tre, quattro in aria mentre raccogli la quinta, una danza matematica che richiedeva una grazia che raramente possedevo. Guardavo con ammirazione i virtuosi che completavano la sequenza senza sforzo apparente, come se avessero trovato il codice segreto della gravità.
Gli hula hoop delle bambine tracciavano cerchi di libertà nell’aria pesante dell’estate, mentre le clik clak scandivano il tempo con il loro ritmo ipnotico, anche se mi slogavano regolarmente i polsi. C’era una dolcezza in questi giochi “femminili” che la brutale semplicità dei giochi maschili non poteva eguagliare. Era come se le bambine avessero scoperto un modo di danzare dentro le sbarre invisibili che ci circondavano.
Sul pavimento del salone, che forse era solo un corridoio, il gioco delle cinque pietre continuava la sua liturgia silenziosa. Ogni lancio era una piccola preghiera di destrezza, ogni presa mancata una lezione di umiltà. Non ero bravo – arrivavo a metà sequenza più per fortuna che per abilità – ma continuavo a provare, attratto da quella perfezione che sempre mi sfuggiva.
“Sentiam nel fitto bosco i lupi ulular” – e nella notte i passi del capocamerata echeggiavano come quelli di un predatore metodico. Ma avevamo imparato a creare rifugi nell’immaginazione, a trovare spazi di libertà nei giochi più semplici, persino nelle figurine che scambiavamo come miniature di un mondo più colorato.
La Geometria dei Giochi
Ogni gioco è una forma di linguaggio, un modo di raccontare storie senza parole. Le cinque pietre parlavano di gravità e grazia, di tempo sospeso e ritorni impossibili. Era una danza verticale che richiedeva una precisione che sembrava sempre sfuggirmi, come se le mie mani parlassero un dialetto leggermente diverso da quello richiesto.
Le clik clak erano un esercizio di masochismo ritmico: click – il dolore acuto nel polso, clack – la determinazione a continuare comunque. Mi affascinavano e mi torturavano in egual misura, come certe pagine di libri troppo difficili che continui a rileggere nonostante – o forse proprio per – la loro incomprensibilità. Il loro suono ipnotico creava una specie di trance, un rifugio sonoro dove il tempo assumeva una dimensione diversa.
Gli hula hoop disegnavano nell’aria cerchi perfetti, una geometria non euclidea di libertà. Guardavo le bambine danzare con i loro anelli colorati e vedevo una forma di resistenza gentile, un modo di piegare lo spazio e il tempo senza spezzarli. I loro movimenti avevano una fluidità che i giochi “da maschi” non contemplavano, una grazia che parlava di altri modi di essere forti.
Le figurine del calcio erano una valuta che non sapevo gestire. Le scambiavo malamente, perdendo sempre nelle transazioni, come un mercante distratto in una lingua che non era la sua. Non era tanto il calcio in sé che mi risultava incomprensibile, quanto quel mondo di competizione cruda che rappresentava, così diverso dal volo armonioso delle cinque pietre.
Ma erano i giochi silenziosi quelli che preferivo: l’osservazione delle formiche che marciavano in file ordinate, la costruzione di mondi immaginari con rametti e sassi, la contemplazione delle nuvole che cambiavano forma. Giochi che non richiedevano competizione né violenza, solo la capacità di vedere la magia nel quotidiano.
“Dalle lontane steppe sentiamo fin quaggiù” – e in quei momenti di gioco solitario, ogni suono assumeva una dimensione diversa. Il rimbalzo delle clik clak diventava il battito di un cuore meccanico, il fruscio degli hula hoop si trasformava nel vento delle steppe lontane, il tintinnio delle cinque pietre componeva una musica che solo alcuni potevano sentire.
In questi giochi trovavo un rifugio, un modo di esistere che non richiedeva né vittorie né sconfitte. Come un monaco che ripete il suo mantra, continuavo a lanciare le pietre nell’aria, a far girare le clik clak nonostante il dolore, a osservare i cerchi degli hula hoop. Non era l’abilità che cercavo, ma quella particolare forma di pace che viene dal perdersi completamente in un gesto ripetuto all’infinito.
Le bambine sembravano capirlo istintivamente. Nei loro giochi c’era una saggezza antica, una comprensione che la forza non è sempre sinonimo di potere, che la grazia può essere una forma di resistenza. Le guardavo e imparavo un alfabeto diverso, fatto di movimenti fluidi e risate sommesse, così distante dagli urli e dagli spintoni dei giochi maschili.
Le Metamorfosi dell’Anima
La memoria è un caleidoscopio che trasforma i frammenti del passato in costellazioni sempre nuove di significato. Ogni rotazione rivela un disegno diverso, un modo nuovo di comprendere ciò che siamo stati. Come il gioco delle cinque pietre che lanciavamo nell’aria, i ricordi salgono e scendono, creando geometrie impossibili di senso.
A Marina di Massa, nelle ore più calde del pomeriggio, il tempo stesso sembrava fondersi come cera al sole. Sdraiati sulla sabbia bollente, costretti all’immobilità dalla disciplina ferrea del bagno razionato, inventavamo percorsi per le biglie – piccoli labirinti effimeri che il vento o le onde avrebbero cancellato. Era il nostro modo di scrivere storie sulla superficie mobile del mondo, sapendo che sarebbero durate meno di un respiro.
“Udiam nella foresta” – la filastrocca emergeva dal profondo della memoria come un’eco di qualcosa di più antico, un richiamo a una saggezza che non sapevamo di possedere. Il cuculo cantava nelle nostre voci infantili, ma era il canto dell’anima che cercava di raccontarsi, di trovare il suo posto in un mondo che sembrava sempre troppo stretto o troppo largo.
Gli hula hoop delle bambine tracciavano nell’aria cerchi perfetti, come anni che tornano su se stessi ma non sono mai gli stessi. Le guardavo danzare con i loro anelli colorati e vedevo una forma di preghiera pagana, un rituale di appartenenza al grande cerchio dell’esistenza. In quei momenti, persino il dolore cronico delle clik clak ai polsi assumeva un significato diverso: non era più una tortura autoinflitta ma un rosario laico, dove ogni click e ogni clack segnava un passo nel cammino verso la comprensione.
Le sere portavano una quiete densa di significati. Il donnone-suora si ritirava nel suo regno di ombre, lasciando il campo al capocamerata e ai suoi rituali notturni. Ma anche il terrore può diventare una forma di conoscenza: imparammo a leggere i passi, a interpretare i silenzi, a trovare rifugio nell’invisibilità del sonno apparente. Come animali notturni che sviluppano sensi più acuti, la paura ci insegnò a vedere nel buio della nostra condizione.
Non erano solo estati, erano stagioni dell’anima. Ogni colonia rappresentava un rito di passaggio, una tappa nel viaggio verso la comprensione di noi stessi. Da Piamprato con la sua innocenza ferita a Marina di Massa con la sua disciplina opprimente, fino all’Estate Ragazzi dove l’infanzia cominciava a dissolversi come nebbia al sole – ogni esperienza era un tassello nel mosaico dell’identità.
Ora, guardando indietro attraverso il prisma del tempo, vedo che non erano tanto luoghi fisici quanto stati di coscienza. Come il gioco delle cinque pietre richiedeva un equilibrio perfetto tra controllo e abbandono, così quelle estati ci insegnavano l’arte sottile di essere e divenire, di resistere e adattarsi, di conservare la propria essenza mentre ci trasformavamo in qualcosa di nuovo.
Le Voci del Silenzio
Il silenzio ha molte voci, e nelle colonie imparammo a distinguerle tutte. C’era il silenzio gravido di attesa prima del fischio del bagno a Marina di Massa, il silenzio complice delle notti in tenda a Piamprato, il silenzio teso dei corridoi quando il capocamerata faceva il suo giro. Come quel gioco delle cinque pietre che tanto ammiravo negli altri, ogni silenzio richiedeva una sua particolare forma di maestria.
I giochi stessi erano forme di linguaggio silenzioso. Le bambine con i loro hula hoop parlavano di grazia e libertà senza bisogno di parole, i loro movimenti fluidi una poesia che il corpo scriveva nell’aria. Le guardavo e vedevo una sapienza antica, una conoscenza che andava oltre le parole, oltre persino il pensiero cosciente.
Le clik clak, con il loro ritmo ipnotico, erano come un mantra meccanico che scandiva il tempo in modo diverso. Click – un momento di perfezione. Clack – la sua inevitabile dissoluzione. Il dolore ai polsi diventava parte del rituale, come se il corpo dovesse pagare un prezzo per questa forma di meditazione involontaria. Non ero bravo, ma continuavo comunque, attratto da quella promessa di ordine nel caos.
“La notte è tenebrosa” – cantavamo, e la filastrocca assumeva significati sempre nuovi, come un testo sacro che rivela diverse verità a seconda di chi lo legge. I lupi che ululavano nel bosco non erano più creature di fantasia ma presenze reali che abitavano i corridoi della colonia, vestite di autorità e indifferenza. Il donnone-suora, con il suo sguardo perennemente distolto, era come una divinità distratta che aveva abbandonato la sua creazione al caos.
Ma anche nel caos c’erano pattern da scoprire, come quelli che tracciavamo sulla sabbia per le nostre biglie. Ogni percorso era una storia, ogni curva una possibilità, ogni buca una trappola o un rifugio. La sabbia conservava le nostre narrazioni per il tempo di un respiro, poi il vento o le onde le cancellavano, insegnandoci la bellezza dell’impermanenza.
Le figurine del calcio, che scambiavo malamente non comprendendo il loro valore di mercato, erano come geroglifici di un linguaggio maschile che non riuscivo a decifrare. Preferivo i codici più sottili dei giochi “da bambine”, dove la vittoria non era mai il vero obiettivo, dove la grazia del movimento era più importante del risultato.
Nelle notti più silenziose, quando anche l’ultimo “Cu-cu” della filastrocca si era spento nell’aria, restavamo soli con i nostri pensieri. Era in quei momenti che il silenzio diventava più eloquente, popolato dai fantasmi delle nostre paure e dei nostri desideri. Come quegli esperti delle cinque pietre che riuscivano a tenere in aria mondi interi senza farli cadere, imparavamo a bilanciare la nostra realtà interiore con quella esterna.
Ora, a distanza di anni, questi silenzi continuano a parlare. Ogni click delle clik clak, ogni fruscio degli hula hoop, ogni tintinnio delle cinque pietre sulla pietra è una sillaba in questo poema senza parole che chiamiamo memoria. Un poema che continua a scriversi, a riscriversi, come quei percorsi sulla sabbia che il mare cancellava ma che da qualche parte, in qualche dimensione del ricordo, continuano a esistere, perfetti e immutabili.
La Danza del Ping-Pong
A quattordici anni, l’Estate Ragazzi a Settimo si apriva come un teatro di nuove consapevolezze. Il mondo si divideva in territori sempre più definiti: la piscina che evitavo come un territorio ostile, i gruppi di ragazzi “truzzi” con i loro codici incomprensibili, e quel tavolo verde di ping pong che sarebbe diventato, inaspettatamente, il mio palcoscenico di riscatto.
“Graffia come le bambine” – le parole volevano essere un insulto, ma contenevano una verità più profonda di quanto i miei detrattori potessero immaginare. Nel ping pong, quella presunta debolezza si trasformò in forza: la precisione invece della potenza, la strategia invece della brutalità. La pallina rimbalzava sul tavolo verde come un pensiero che cerca il suo ritmo, la sua verità.
Non era solo un gioco, era una forma di linguaggio che finalmente potevo parlare fluentemente. Ogni scambio era una conversazione silenziosa, ogni partita una storia che si scriveva da sé. L’animatore, che all’inizio mi guardava con quella miscela di pietà e indifferenza tipica degli adulti, iniziò a perdere. Non una volta, non per caso. Il suo rispetto, inizialmente riluttante, crebbe come un fiore improbabile in un terreno arido.
La metamorfosi fu sottile ma inesorabile. Non ero più solo “quello che graffia come le bambine”, ero diventato “quello che è imbattibile a ping pong”. Una definizione ancora limitante, forse, ma era un inizio, una crepa nel muro dell’emarginazione. Come un attore che trova finalmente la sua parte perfetta, avevo scoperto un modo di esistere che non richiedeva scuse o giustificazioni.
Il tavolo verde divenne il mio territorio, uno spazio dove le regole del mondo esterno si sospendevano. Non importava più essere diverso – importava solo il ritmo della pallina, la precisione del colpo, la danza dei riflessi. Era una forma di meditazione attiva, dove ogni scambio costruiva un ponte tra chi ero e chi potevo essere.
La piscina poteva restare un territorio nemico, con la sua esposizione forzata e la sua socialità aggressiva. I “truzzi” potevano continuare i loro rituali incomprensibili. Avevo trovato il mio spazio, il mio modo di brillare. Come quelle bambine che trasformavano gli hula hoop in strumenti di grazia, avevo trasformato un tavolo da ping pong in un altare dove la diversità diventava eccellenza.
Il rispetto guadagnato su quel tavolo verde si estese come cerchi nell’acqua, toccando altre aree della vita sociale. Era una lezione preziosa: non devi cambiare chi sei, devi solo trovare il tuo campo di battaglia, il tuo modo di danzare. L’Estate Ragazzi non era più una prova da sopravvivere, era diventata un palcoscenico dove potevo finalmente recitare la mia parte senza maschere.
E forse è questa la vera alchimia dell’adolescenza: non tanto il cambiare se stessi per adattarsi al mondo, quanto il trovare quel particolare spazio dove il mondo deve adattarsi a te. Come una pallina da ping pong che trova la sua traiettoria perfetta, come un outsider che scopre che la vera forza sta proprio in ciò che lo rende diverso.
Le Stagioni della Memoria
La memoria è come quel ruscello di Piamprato che continua a scorrere anche dopo che la neve del ’72 ha sepolto la colonia. Fluisce incessante, trasformando ogni ricordo in un affluente che contribuisce al grande fiume dell’identità. Le estati delle colonie non sono più solo stagioni nel calendario della crescita, ma capitoli di un’iniziazione che continua a rivelarsi, come quei giochi delle cinque pietre che non finiscono mai davvero, anche quando l’ultima pietra è caduta.
Piamprato rimane sospesa nel tempo come una città delle favole, dove una storta al piede poteva trasformarsi in un dono e una biblioteca prestava giocattoli invece di libri. La neve che l’ha sepolta sembra quasi un gesto di protezione del destino, come se quel luogo fosse troppo puro per sopravvivere in un mondo sempre più cinico. Il suo ruscello continua a cantare nelle profondità della memoria, una ninnananna che parla di innocenza e possibilità infinite.
Marina di Massa si staglia come una lezione più dura, dove il mare razionato e i passi notturni del capocamerata componevano una sinfonia di controllo e resistenza. Eppure, anche lì fiorivano forme sottili di libertà: nei cerchi perfetti degli hula hoop, nel ritmo ipnotico delle clik clak che mi slogavano i polsi ma ipnotizzavano la mente, nelle traiettorie impossibili delle cinque pietre che alcuni riuscivano a dominare con una grazia che mi sembrava sovrumana.
L’Estate Ragazzi a Settimo è stata l’ultima metamorfosi, dove un tavolo da ping pong è diventato l’altare di una trasformazione inaspettata. “Graffia come le bambine” – l’insulto che è diventato profezia, la debolezza che si è fatta forza. In quel teatro quotidiano di piccole vittorie e comprensioni silenziose, ho imparato che essere diversi non è una condanna ma una possibilità, non un limite ma un orizzonte.
La filastrocca del cucù risuona ancora, non più come una semplice canzone per bambini ma come una mappa poetica del viaggio: “Udiam nella foresta” – l’invito a esplorare i territori selvaggi dell’anima; “la notte è tenebrosa” – il coraggio di attraversare le ombre; “i lupi ulular” – la capacità di trasformare la paura in conoscenza.
Quando chiesi un libro che parlasse di altri mondi e ricevetti Fred Flintstone con le sue macchine di pietra, non capivo che ogni tentativo di normalizzazione era destinato a fallire non per la sua forza ma per la sua debolezza. Come poteva una preistoria cartoonizzata competere con la poesia silenziosa di un hula hoop che disegna cerchi nell’aria, o con la perfezione matematica di una partita di ping pong?
Ora, guardando indietro attraverso il caleidoscopio del tempo, vedo che queste esperienze non erano tanto stazioni di un viaggio quanto alchimie necessarie alla formazione dell’anima. Ogni colonia era un crogiolo dove elementi diversi si fondevano: la magia di Piamprato, l’austerità di Marina di Massa, la metamorfosi di Settimo. E da questo processo alchemico è emerso qualcosa di nuovo: non tanto una risposta quanto una domanda continua, non tanto una destinazione quanto un modo di camminare.
Le colonie sono finite, ma la loro eco continua a risuonare nel profondo, come quella filastrocca che non smette mai veramente di cantare. Perché alla fine, forse, non erano tanto luoghi fisici quanto stati dell’anima, non tanto prigioni quanto porte, non tanto estati quanto stagioni interiori che continuano a fiorire, a maturare, a trasformarsi. Come quel ruscello sepolto di Piamprato che, da qualche parte, continua a cantare la sua canzone senza fine.

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