PRELUDIO – NODI DI TRANSIZIONE
L’aereo della San Giorgio Aromi era più piccolo di quanto immaginassi. Il cielo sopra Torino era di un azzurro impossibile, come gli aromi “naturali identici” che producevamo in laboratorio – una copia perfetta della realtà che in qualche modo era diventata reale essa stessa.
“Primo aereo?” aveva chiesto il pilota, giovane, le mani sicure sui comandi.
“Primo di molti, spero.” La voce non tremava più quando parlavo del futuro, non come quando affrontai il primo volo appena dopo la maturità. Allora ogni decollo sembrava un atto di ribellione, ogni atterraggio una conquista.
La radio in cabina suonava appena, un mormorio di sottofondo nascosto dal rumore dei motori dell’aereo. Keith Jarrett improvvisava dal nastro consumato, le sue note fluide come gli aromi che distillavamo. Non era come al Mulino, dove la musica era una presenza costante, una necessità. Qui era solo un’eco, come un ricordo che sfuma .
“Naturale identico,” mormoravo osservando le formule chimiche, assaporando l’ossimoro. Come me, pensavo. Come tutti noi che cercavamo disperatamente di essere autentici. Non potevo fare a meno in quell’ora di viaggio di ammirare l’ala, le nuvole e meditare sulla mia vita, capii che viaggiare in quegli anni era nella mia natura.
Il vecchio proprietario della San Giorgio aveva un naso leggendario. Si muoveva tra le provette come un maestro, trovando verità negli odori, nelle molecole, nei profumi che replicavano la natura senza esserlo. “Questa è perfetta,” diceva annusando una formula. “Ma potrebbe essere migliore.”
Lo guardavo e sorridevo. La sua ricerca della perfezione negli aromi artificiali era diventata una strana metafora del mio cammino: la ricerca di autenticità in un mondo di copie.
CAPITOLO I – MANHATTAN
La griglia di Manhattan si apriva sotto di me come una pagina dei fumetti dell’Uomo Ragno diventata improvvisamente reale. Quante volte da bambino avevo sognato questi grattacieli, queste strade che si intersecavano in una geometria perfetta di possibilità?
“Fifth and 42nd,” dissi al tassista. La voce era ferma, ma il cuore batteva come quando leggevo quelle storie sotto le coperte, con una torcia elettrica che trasformava le pagine in finestre su un altro mondo.
Nella lettera a Servas avevo scritto con una franchezza che mi sorprendeva ancora: “Sono gay ma non cerco esperienze durante il viaggio.” La chiarezza era una forma di libertà nuova. Non più messaggi nascosti, non più codici segreti sulla vecchia agenda. Solo verità semplici.
Il Metropolitan mi accolse come una cattedrale dell’arte. Sapevo arrivarci perché avevo studiato le mappe, calcolato le distanze. La mia mente cercava ancora regole, come quando cercavo un senso nei tabulati, ma ora sapevo che alcune regole esistono solo per essere infrante.
“You walk like you know where you’re going,” mi disse un ragazzo in un bar.
“I’m learning,” risposi. Ed era vero – stavo imparando. La città. Me stesso. La differenza tra solitudine e solitudine scelta.
Pat Metheny suonava da qualche finestra aperta, le sue note cristalline danzavano tra i grattacieli. Non era più la musica ribelle della mia gioventù, ma qualcosa di più sottile, più complesso. Come la città stessa, che si rivelava strato dopo strato.
I grattacieli si stagliavano contro il cielo come note su un pentagramma vuoto. Io ero qui, un punto di silenzio in questa sinfonia urbana, non più perso ma in cerca. Non più quel bambino che guardava il mondo attraverso un oblò, ma un uomo che imparava a navigare le geometrie del desiderio.
La città mi parlava in un codice che stavo imparando a decifrare. Non era più il linguaggio della paura o della ricerca disperata. Manhattan non era più un sogno da fumetti. Era un algoritmo vero che stavo vivendo davvero, si rivelava passo dopo passo, incontro dopo incontro.
E Servas, che all’inizio sembrava solo un modo economico di viaggiare, stava diventando una chiave per aprire porte che non sapevo nemmeno esistessero.
La notte, dal mio letto nell’ostello, guardavo le luci della città che non dorme mai. Pensavo al giovane pilota della San Giorgio, alla sua domanda: “Prima volta?”
Ogni viaggio è una prima volta, realizzavo. Ogni città un nuovo alfabeto da imparare.
CAPITOLO II – GEOMETRIE ANGLOSASSONI: LONDRA
La pioggia londinese non cade, striscia. Si insinua tra i pensieri come un dubbio persistente, trasforma l’aria in qualcosa di tangibile. Non è la pioggia mediterranea che conosco, quella che lava via tutto e ricomincia. Questa rimane, si accumula, diventa parte del paesaggio mentale.
“Welcome to the City,” dice Tom, il mio contatto Servas, mentre mi guida attraverso Liverpool Street Station. La “City” con la C maiuscola, il cuore finanziario di Londra. Il suo tono suggerisce che dovrei essere impressionato.
Lo sono, ma non nel modo che si aspetta. Dopo Manhattan, i grattacieli non sono più una novità. È il ritmo della città che mi colpisce. Frenetico come Milano, ma con una determinazione diversa, quasi feroce.
La casa di Tom è in uno di quei quartieri residenziali dove ogni edificio sembra una fotocopia dell’altro. Mattoni rossi, finestre bianche, piccoli giardini identici. Un’uniformità che a Torino sarebbe impensabile.
“Ti piace il tuo lavoro?” chiede durante la cena, servita alle sei e trenta precise.
È una domanda che a Torino nessuno farebbe così direttamente, non prima del dolce almeno. “È interessante,” rispondo, cercando di adattarmi al pragmatismo locale.
La sera, nel pub, osservo i colletti bianchi che si trasformano. Le cravatte si allentano, le risate si fanno più forti, la compostezza diurna si scioglie nella birra. Ma c’è qualcosa di meccanico anche in questo, come se il divertimento fosse un altro obbligo da assolvere.
“Non vuoi lavorare qui?” chiede Sarah, una collega italiana trapiantata da anni. “Si guadagna molto meglio.”
Le luci artificiali della City brillano attraverso la pioggia sottile. Mi tornano in mente gli aromi “naturali identici” della San Giorgio. Anche qui c’è qualcosa di perfettamente replicato che però non è del tutto vero.
La mattina, la metropolitana è un esercizio di precisione disumana. Corpi che si muovono in silenzio, occhi fissi sui giornali o sui primi smartphone. Ralph Towner suona nelle mie cuffie, una melodia che sembra venire da un altro mondo.
“Sei in ritardo,” nota Tom quando rientro la sera. Sono le 18:35.
A Milano almeno fingono che il tempo sia elastico. Qui è una gabbia invisibile, una griglia più rigida di quella di Manhattan.
Durante il weekend, la città cambia pelle. I parchi si riempiono alla prima timida apparizione del sole. La gente sembra ricordarsi improvvisamente come sorridere. Ma c’è qualcosa di programmato anche in questa libertà.
“Non capisci,” dice Sarah quando le confesso i miei dubbi. “Qui puoi essere quello che vuoi.”
“Ma devi volerlo nel modo giusto,” penso, guardando la folla dei pendolari che sciamano fuori dalla stazione.
L’ultima sera, Tom mi porta in un ristorante indiano. “È il vero sapore di Londra,” dice con orgoglio. Mi fa sorridere questo paradosso: una città che trova la sua autenticità nella cucina di un altro paese.
La pioggia continua a cadere mentre vado in taxi verso l’aeroporto. Il cielo è basso, grigio, ma non più minaccioso. Ho imparato che alcuni luoghi non vanno amati per quello che vorresti che fossero, ma compresi per quello che sono.
Londra non sarà mai la mia città, come Milano non lo è. Ma ora capisco meglio entrambe. Sono storie diverse, modi differenti di organizzare il caos umano.
“Home?” chiede l’addetto al check-in.
“Italy,” rispondo, e per la prima volta non sembra una sconfitta.
CAPITOLO III – EUROPA DEI CONFINI: BERLINO
Kreuzberg non è un quartiere, è una dichiarazione d’intenti. I muri parlano tre lingue: tedesco, turco e spray. Il profumo di kebab si mescola a quello del pane di segale, mentre i rintocchi della chiesa protestante si fondono con il richiamo del muezzin.
“Willkommen in der echten Berlin,” dice Hans, studente e squatter per scelta. La vera Berlino, come se ce ne fosse una falsa. Ma di false Berlino ce ne sono almeno due, penso, divise da un muro che taglia la città come una ferita.
La metropolitana attraversa stazioni fantasma. Il treno rallenta, le luci si abbassano, e attraverso i finestrini si intravedono banchine deserte, ferme nel tempo. “Geisterbahnhöfe,” sussurra Hans, “stazioni fantasma”. Guardie armate pattugliano questi non-luoghi, come sentinelle di un limbo urbano.
La casa occupata ha cinque piani di vita improvvisata. Ogni piano un universo a sé: studenti tedeschi che leggono Heidegger, artisti turchi che dipingono miniature, punk che organizzano concerti nei seminterrati. L’anarchia ha le sue regole non scritte, i suoi ritmi precisi.
Il giorno del tour verso l’Est, l’aria cambia leggermente ancora prima di arrivare al Check Point Charlie. Ma poi una volta passati l’effetto olfattivo e’ profondamente surreale. È un odore diverso, realizzo, un mix di carbone e gas di scarico delle Trabant. Il fotografo del gruppo, Klaus, si ferma ogni pochi passi. Prima scatta con una Polaroid, studia l’immagine con attenzione quasi maniacale, poi imposta la sua macchina più sofisticata.
“La Polaroid mi dice come la luce mente,” spiega, mostrandomi le due versioni della stessa immagine. Ai miei occhi, anche la Polaroid sembra un miracolo di tecnologia, ma capisco che per certe cose serve più dell’istinto – serve metodo.
I controlli al Check Point sono un rituale umiliante. I soldati dell’Est scrutano i passaporti come se cercassero tradimenti nascosti tra le pagine. Il silenzio è pesante, rotto solo dal fruscio dei documenti e dal rumore degli stivali sul cemento.
“Nicht bewegen,” ordina una guardia quando Klaus alza la sua macchina fotografica. Non muoversi. La foto deve attendere, qui è il potere che decide quando e come si può guardare.
Berlino Est è un altro pianeta, dicevamo. I colori sembrano sbiaditi, come in una vecchia fotografia. Le Trabant, con il loro corpo di plastica e il loro caratteristico odore di scarico, sembrano giocattoli in un mondo di adulti troppo seri.
“Guarda come cambia la luce,” sussurra Klaus, scattando prima con la Polaroid. “L’Est usa lampade diverse. Danno alla città un colore… come dire… più duro.”
In un piccolo negozio, compro souvenir con i Marchi dell’Est – sono diversi, quasi come gettoni di un altro mondo. Oggetti semplici, basici: cartoline, piccoli distintivi, un calendario. La commessa li incarta con una cura quasi reverenziale. Sei obbligato a spendere tutti i soldi che hai cambiato e li usi per alimentare la loro piccola economia turistica, non puoi portare niente indietro se non questi piccoli acquisti.
“Questi sono più preziosi per loro di quanto pensi,” spiega la guida.
Klaus cattura tutto: i contrasti, le crepe nei muri, i punti dove la divisione è più evidente. La sua metodologia – Polaroid, studio, scatto finale – è come un rituale che cerca di dare senso all’assurdo.
“È cercare di capire come due realtà così diverse possano esistere nello stesso spazio, a poche centinaia di metri.” dice mentre studia un’immagine appena sviluppata.
Il ritorno a Ovest è come riemergere da un’apnea. I colori tornano vividi, l’aria sembra più leggera. Ma qualcosa è cambiato dentro. L’esperienza del muro lascia un segno, penso, una cicatrice invisibile nella mente.
La sera, nella casa occupata, le immagini di Klaus vengono proiettate su un lenzuolo bianco. Le Polaroid di studio accanto agli scatti finali. La sua tecnica meticolosa ha catturato qualcosa che va oltre la semplice documentazione – ha catturato l’anima divisa della città.
“La gentrificazione arriverà anche qui,” dice Hans, guardando le foto. “Ma non sarà mai come quel muro.”
Al mercato turco, il vecchio delle spezie parla della sua Berlino: “Sono arrivato nel ’73. Dovevo restare sei mesi.” Ora suo figlio studia medicina alla Freie Universität e sua nipote suona in una band punk-balcanica.
La sera, l’SO36 pulsa di musica che sfida ogni definizione. Dentro, la gente è un esperimento di integrazione: studenti tedeschi ballano dabke con ragazzi turchi, punk con il mohawk condividono birra con signore in hijab.
“Non guardare solo la musica,” urla Hans sopra i bassi. “Guarda chi la balla.” La band sul palco è un mix improbabile: una vocalist turca, un bassista punk tedesco, un sassofonista dell’Est. Il suono è un caos organizzato che funziona proprio perché non dovrebbe funzionare.
L’ultima notte, sul tetto della casa occupata, guardo le luci della città divisa. A Est, il bagliore giallastro delle vecchie lampade al sodio. A Ovest, il neon dei locali notturni.
“Bleibst du?” chiede Marie. Se resto.
Vorrei poter rispondere di sì. C’è qualcosa di magnetico in questo luogo sospeso tra mondi, in questa libertà che esiste proprio perché ci sono muri da abbattere.
“Nein,” rispondo. “Ich bin nur ein Beobachter.” Sono solo un osservatore.
“Hier sind wir alle Beobachter,” sorride lei. Qui lo siamo tutti. Osservatori di un momento unico nella storia, di un esperimento di convivenza che esiste nelle crepe tra i mondi.
Prima di partire, sviluppo le mie foto. Non saranno mai precise come quelle di Klaus, manca il metodo, la preparazione, lo studio con la Polaroid. Ma forse catturano qualcos’altro: lo shock, il disorientamento, il senso di irrealtà di una città divisa in due.
Berlino mi ha insegnato che i confini non sono mai dove pensiamo che siano. Sono nelle teste, nei cuori, nelle paure. Ma soprattutto mi ha mostrato che la realtà più assurda può diventare normale, finché qualcuno non ti mostra come guardarla davvero.
Come Klaus con la sua Polaroid, cercando la verità dietro la luce che mente.
CAPITOLO IV – EUROPA DEI CONFINI: ADRIATICO
Fiume non esiste più sulle mappe. Ora è Rijeka, ma le vecchie insegne in italiano sopravvivono come fantasmi sbiaditi sui muri del centro. Il mare è lo stesso di Trieste, ma l’aria è diversa. Più densa, come se il peso della storia recente la rendesse più difficile da respirare.
L’hotel che ospita il meeting Servas ha visto giorni migliori. Le tende scolorite e i tappeti consumati raccontano una storia di splendore decaduto, ma c’è dignità nel modo in cui il personale mantiene tutto perfettamente pulito.
“Peace through understanding,” recita lo striscione appeso nella sala conferenze.
“Dobbiamo ricostruire i ponti,” dice Mira, la coordinatrice locale. Non parla solo di quelli bombardati durante la guerra. I suoi occhi hanno quella determinazione particolare di chi ha visto troppo ma sceglie di guardare avanti.
La sera, al ristorante sul mare, le lingue si mescolano come le onde. Inglese, italiano, croato, tedesco. Una musica antica suona in sottofondo – un coro di Spalato che canta melodie dalmate. Non serve capire le parole per sentirne il peso.
“Sai che qui una volta…” inizia un anziano di Trieste, ma lascia la frase a metà. Troppe storie iniziano così in questi luoghi. Troppe finiscono nel silenzio.
A Dubrovnik, le cicatrici della guerra sono ancora visibili sui muri di pietra bianca. Ma i turisti stanno tornando, scattano foto delle antiche fortificazioni senza notare i segni delle granate.
“È strano,” dice Ana, una giovane volontaria locale, “vedere la propria città diventare di nuovo un set fotografico.”
Mi ricorda le parole di Hans a Berlino. Ma qui la trasformazione ha un sapore diverso – di sopravvivenza, di rinascita.
Durante le sessioni del meeting, le discussioni sono intense. Come gestire i nuovi confini? Come mantenere i contatti attraverso frontiere appena tracciate? Come far funzionare una rete di ospitalità in un luogo dove la fiducia è stata così profondamente ferita?
“A volte penso che siamo ingenui,” confessa Mira una sera, davanti a un caffè turco servito in tazzine minuscole. “Ma poi ricordo che l’alternativa è peggiore.”
Sul traghetto verso le isole, un gruppo improvvisa canti tradizionali. Le voci si alzano sopra il rumore del motore, sopra il vento, sopra la storia. Non è la musica sperimentale di Berlino, né il jazz sofisticato di Manhattan. È qualcosa di più antico, più viscerale.
“Vedi quella casa?” indica Klaus, un tedesco che viene qui da trent’anni. “Prima della guerra apparteneva a…” Si interrompe. Anche qui, come a Fiume, troppe storie rimangono sospese.
L’ultima sera, sulla terrazza dell’hotel, guardiamo il sole tramontare sul mare. Lo stesso mare che bagna Trieste, Venezia, la Grecia. Lo stesso mare che per secoli ha unito invece di dividere.
“Tornerai?” chiede Mira.
Penso a tutte le versioni di questa domanda che ho sentito: a Manhattan, a Londra, a Berlino. Ma qui ha un peso diverso.
“Forse,” rispondo. E per una volta non è una risposta facile, di quelle che si fanno ai viaggi.
Sul treno del ritorno, mentre la costa adriatica scorre fuori dal finestrino, ripenso allo striscione del meeting. Peace through understanding. Forse è questo che Servas sta diventando per me: non più solo un modo di viaggiare, ma un modo di comprendere.
Le vecchie insegne in italiano di Fiume svaniscono nella distanza. Ma le voci del coro dalmate continuano a risuonare, come un ponte sonoro tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere.
CAPITOLO V – MEDITERRANEO ORIENTALE: ISTANBUL
Il Bosforo divide la città come un pensiero divide la mente. Da una parte l’Europa, dall’altra l’Asia, e in mezzo questa corrente che non si ferma mai. Il coordinatore Servas di Istanbul vive sul lato europeo, in un appartamento pieno di libri e tappeti dove sua madre regna sovrana.
“Çay?” chiede lei, per la quarta volta in un’ora. Il tè è più di una bevanda qui – è un rituale, un linguaggio, un modo di dire cose che le parole non possono esprimere.
La mia difficoltà a mostrare emozioni trova un muro inaspettato in questa casa dove ogni gesto è carico di significato. Il coordinatore traduce, ma non solo le parole – traduce intere costellazioni di sentimenti che mi trovo impreparato a gestire.
“Mia madre dice che hai occhi tristi,” mi informa durante una passeggiata verso Aya Sophia. Non so come rispondere. In Italia eviterei, a Londra cambierei argomento. Qui il silenzio sembra inadeguato.
La madre appare sempre nei momenti giusti, come se avesse un sesto senso per le anime inquiete. Porta dolci, sorrisi, e quella forma di affetto che non chiede permesso.
“Non devi capire tutto,” dice il coordinatore, vedendo il mio disagio. “Devi solo accettare.”
Il barbiere del quartiere diventa una tappa obbligata dopo 2-3 giorni, e nascono ovvie conversazioni. Mi taglia i capelli con la precisione di un chirurgo mentre cerca di salvare la mia anima.
“Aya Sophia,” ripete, come una prescrizione medica. “Devi vedere davvero.” Le sue mani si muovono sicure, il rasoio danza sulla pelle mentre lui parla di fede, di dubbi, di certezze.
“Come può un ateo essere così sicuro?” chiede con genuina curiosità, mentre mi mostra il risultato del taglio nello specchio. Non c’è giudizio nella sua voce, solo un interesse sincero per un modo di pensare così diverso dal suo.
Un pomeriggio, seguendo il consiglio di un locale, decido di provare il bagno turco nel centro storico. L’hammam sembrava una tappa obbligata della cultura locale, ma nessuno mi aveva spiegato il protocollo.
“Buyurun,” dice l’addetto all’ingresso, indicandomi dove cambiarmi. Mi ritrovo in mutande, impreparato alla complessa coreografia di mance che seguirà: una per il sapone, una per l’asciugamano, una per il massaggio.
È come una gioco nuovo di cui non conosco le regole, penso mentre cerco goffamente di capire quando e quanto dare. Gli altri clienti si muovono con naturale confidenza in questo rituale antico, mentre io improvviso, cercando di non fare troppi errori.
“Yabancı?” (straniero?) chiede sorridendo l’uomo che mi lava la schiena, notando il mio evidente disagio con l’uso locale. Il suo sorriso è gentile, comprensivo. Quanti altri come me avrà visto passare di qui, tutti ugualmente spaesati?
Aya Sophia si staglia contro il cielo come una risposta a una domanda che non so formulare. Dentro, la luce filtra attraverso secoli di storia, illuminando sia le icone cristiane che i simboli islamici. Come può un posto contenere tante contraddizioni e rimanere in piedi?
Durante una cena, la madre mi serve porzioni triple nonostante i miei tentativi di rifiutare educatamente. “Dice che sei troppo magro,” traduce il figlio, divertito. “E che pensi troppo.”
Ha ragione su entrambe le cose.
Una sera, la madre mi trova sul balcone a guardare il Bosforo. Senza dire una parola, mi porta una coperta e si siede accanto a me. Non parliamo – non condividiamo abbastanza parole.
“È preoccupata che tu sia solo,” traduce il figlio più tardi.
“Non sono solo,” rispondo. “Solo… diverso.”
Il coordinatore sorride: “Qui siamo tutti diversi. È per questo che funziona.”
I traghetti attraversano continuamente il Bosforo, cucendo insieme Europa e Asia in un dialogo infinito. Dal ponte, la città sembra un unico organismo che respira attraverso queste traversate.
“Ogni viaggio è un ponte,” dice il coordinatore mentre osserviamo le barche. “Anche quando non sai esattamente cosa c’è dall’altra parte.”
L’ultimo giorno, faccio un’ultima chiacchierata dalla porta con il barbiere, ormai diventato amico. Mi guarda, con un misto di affetto e rassegnazione: “Non sei andato a vedere Aya Sophia, vero?”
“L’ho vista,” rispondo. “Ma forse non come volevi tu.”
Sorride, comprensivo. “Ci sono molti modi di vedere. L’importante è guardare con il cuore aperto.”
La madre mi regala un amuleto contro il malocchio. Lo accetto con una gratitudine che va oltre le parole che non so dire.
“Tornerai,” afferma più che chiedere. Non è una domanda, è una certezza materna.
Sul traghetto che attraversa il Bosforo un’ultima volta, guardo la città dividersi e riunirsi con ogni movimento delle onde. Il muezzin chiama alla preghiera, le campane delle chiese rispondono.
Istanbul mi ha insegnato che ci sono modi di comunicare che non hanno bisogno di parole. Che l’affetto può essere diretto come un tè servito al momento giusto. Che alcune madri sanno vedere attraverso tutte le nostre difese. E che a volte le lezioni più importanti arrivano nei momenti di maggior disagio, quando siamo costretti a imparare nuove danze.
L’amuleto contro il malocchio pesa nella tasca come una promessa. Non dalla superstizione, ma dalla solitudine che a volte scambiamo per indipendenza.
Le due sponde del Bosforo continuano il loro dialogo eterno, come due parti di una stessa anima che si cercano attraverso l’acqua. E in mezzo, le barche vanno e vengono, come pensieri che attraversano la mente, come ponti che si costruiscono e si disfano ogni giorno.
CAPITOLO VI – MEDITERRANEO ORIENTALE: RODI E CRETA
La Valle delle Farfalle è un miracolo di ombre e luce. Migliaia di ali vibrano nell’aria calda di Rodi, creando un effetto ipnotico. Sandra alza la sua Nikon, cercando di catturare l’impossibile: il momento in cui la natura supera qualsiasi narrazione.
“Non si fotografa la vita,” dice abbassando la macchina fotografica. “Si guarda e basta.”
Il pick-up che ci ha dato un passaggio si arrampica sulla strada costiera. Il guidatore, un uomo sulla sessantina, parla un italiano sorprendentemente fluido.
“Mio padre lavorava qui,” spiega, “quando l’isola era italiana. Costruiva strade.” La sua voce non ha risentimento, solo una strana nostalgia per un’epoca che non ha vissuto.
Le vecchie case in stile italiano si mescolano con l’architettura greca, creando un paesaggio urbano che parla di stratificazioni storiche. Il guidatore indica edifici, racconta storie: “Qui c’era la scuola… qui l’ospedale…”
È strano come la memoria collettiva funzioni: selettiva, imprevedibile. Gli italiani sono stati colonizzatori, eppure qui qualcuno ricorda soprattutto i ponti che hanno costruito, le strade che hanno aperto.
Sandra fotografa le insegne bilingui, i dettagli architettonici, i volti degli anziani che ancora ricordano. Il suo obiettivo cerca di catturare non solo le immagini, ma le tracce di quella che lei chiama “storia vivente”.
“Vedi quell’arco?” Il nostro autista rallenta. “Mio padre diceva sempre che gli italiani sapevano costruire. Non come politici, come artigiani.”
Il sole sta calando quando ci lascia in un piccolo paese costiero. Rifiuta qualsiasi offerta di pagamento, ma accetta di farsi fotografare da Sandra. “Per la storia,” sorride.
La sera, in una taverna, un vecchio sentendo il nostro italiano si avvicina. Ha gli occhi lucidi di retsina e ricordi.
“Gli italiani hanno fatto anche cose buone,” dice, citando inconsapevolmente una frase che in Italia è diventata quasi una parodia. Ma qui suona diversa, sincera.
Sandra estrae il suo taccuino, inizia a prendere appunti. È il suo modo di processare il mondo: attraverso parole e immagini, cercando di dare un senso alle contraddizioni della storia.
Le farfalle della valle sembrano seguirci metaforicamente nell’isola, trasformando ogni incontro in una specie di danza delicata tra presente e passato, tra memoria e realtà.
“È strano,” dice Sandra quella notte, sviluppando le sue foto nella stanza d’albergo trasformata in camera oscura improvvisata. “Come il tempo cambi il significato delle cose.”
L’ultimo giorno, il nostro autista ci ritrova per caso al mercato. Ci regala un sacchetto di fichi secchi e una storia: di suo padre, della guerra, della pace che è venuta dopo.
“La memoria è come le farfalle,” dice Sandra mentre il traghetto lascia l’isola. “Non puoi fissarla, puoi solo osservarla mentre danza.”
E forse è questo il vero regalo di Rodi: non le foto che Sandra ha scattato, non le storie che abbiamo raccolto, ma la comprensione che ogni luogo è un palinsesto di memorie in continua trasformazione.
Le farfalle continuano la loro danza nella valle, ignare di essere diventate metafora. Il mare continua a battere sulle coste, cancellando e riscrivendo la storia ogni giorno.
CAPITOLO VII – MEDITERRANEO ORIENTALE: GRECIA CONTINENTALE
L’oracolo di Delfi tace da secoli, ma il luogo parla ancora. Il vento tra le pietre antiche crea una musica sottile, mentre Sandra fotografa le colonne contro il cielo dell’alba, cercando quell’attimo in cui la luce trasforma il marmo in oro.
“Conosci te stesso”, recita l’iscrizione. Sotto i nostri piedi, le crepe nella roccia da cui un tempo salivano i vapori che alteravano la coscienza della Pitia. Quanto è sottile, penso, il confine tra razionalità e mistero in questa terra.
“Qui la sacerdotessa entrava in trance,” spiega la guida. “I vapori delle viscere della terra, il metano, le esalazioni mefitiche… la scienza moderna ha spiegato gli stati alterati, ma non il mistero delle profezie.”
Il sole è implacabile mentre saliamo verso il teatro. Sandra si ferma ogni pochi passi, il suo obiettivo cerca di catturare l’impossibile: il momento in cui passato e presente si sovrappongono.
La sera, in una taverna, il primo incontro con il retsina. Il vino resinato è una scoperta che divide: “È come bere un albero,” scherza un ragazzo tedesco al tavolo accanto.
“È la memoria del tempo in cui il vino viaggiava in anfore sigillate con resina di pino,” spiega il proprietario della taverna. Come ogni cosa qui, penso, anche un semplice bicchiere di vino nasconde secoli di storia.
Sul battello che ci porta verso le isole, i libri di filosofia inglese occupano il tavolo della piccola caffetteria. Sandra ascolta mentre traduco a voce, trasformando parole straniere in concetti familiari.
“Come fai?” chiede Helena, una ragazza greca che ci osserva da un po’ e che diventerà nostra amica. Parla perfettamente italiano e inglese, ma è la naturalezza della traduzione che la incuriosisce.
Non so spiegarlo. È come quando da bambino guardavo attraverso l’oblò della lavatrice – le parole si trasformano in immagini, le immagini in comprensione.
“È un dono,” insiste Helena, strappandomi il libro di mano per essere sicura che non è in italiano. Ma non è un dono – è qualcosa che è cresciuto naturalmente, come il sapore del retsina che ormai cominciamo ad apprezzare.
Atene ci accoglie con un caldo feroce. I musei sono un percorso obbligato, un pellegrinaggio sotto il sole cocente. Le sale climatizzate del Museo Archeologico offrono un rifugio temporaneo, ma ogni uscita è come un pugno di aria rovente.
“Capisci?” chiede Helena, indicando un’iscrizione antica. Sì e no, vorrei rispondere. Capisco le parole, ma il significato è sempre un passo più in là, come l’orizzonte.
Il mare è calmo, quasi immobile. Dalla costa, la musica di un bouzouki raggiunge la nave, portata dal vento. Non è la musica elettronica di Berlino, né il jazz di Manhattan. È qualcosa di più antico, che parla di mare e di viaggio.
“Leggi questo passaggio,” chiede Sandra, indicando una pagina. Parla di come la verità non sia mai dove la cerchiamo, ma sempre un passo più in là, come l’orizzonte. Mi ricorda le parole della Pizia, sempre ambigue, sempre aperte a multiple interpretazioni.
Sul ponte incontriamo altri viaggiatori: una coppia di australiani in luna di miele, studenti tedeschi in interrail, greci che tornano alle isole di famiglia. Ognuno porta con sé una bottiglia di retsina, come un passaporto liquido.
“Lo troveremo al Mulino?” domanda Sandra quando le parliamo di casa. Il retsina, intende. Sì, penso, lo troveremo in qualche drogheria a Porta Palazzo. E sarà come portare un pezzo di questo viaggio con noi.
La notte, sul ponte della nave, il vino resinato passa di mano in mano. Le stelle sembrano più vicine qui, o forse sono solo i vapori della Pitia che ancora circolano nelle nostre vene, attraverso secoli di storia.
“A cosa pensi?” chiede Helena, vedendomi perso nei pensieri.
Penso a come ogni traduzione sia un piccolo miracolo. Come ogni bicchiere di retsina o fetta di feta e olive siano un ponte tra epoche. Come ogni viaggio sia una profezia che si autoavvera.
Il sole sta tramontando quando raggiungiamo il porto successivo. Helena ci saluta, per davvero, ancora scuotendo la testa per la mia traduzione improvvisata lasciandoci il suo indirizzo ad Atene: “Per quando tornerete.”
Non è una domanda. Come le profezie della Pitia, è una verità che si deve ancora svelare.
Il bouzouki suona ancora, più vicino ora. Un vecchio con le mani nodose pizzica le corde come se stesse raccontando una storia. Forse è questo il vero miracolo della traduzione: non trasformare parole in parole, ma esperienze in comprensione.
La notte è calda, il tipo di caldo che scioglie le barriere tra le persone. Al nostro tavolo si aggiungono altri viaggiatori: una coppia francese, uno studente americano, un archeologo greco. Il retsina continua a girare.
“Come fate a capirvi?” chiede qualcuno, vedendo la nostra babele di lingue e gesti.
Sandra alza la sua macchina fotografica come risposta. Io indico i libri sul tavolo. Il vecchio col bouzouki sorride e suona una nota lunga, vibrante.
Alcuni linguaggi non hanno bisogno di traduzione.
Mesi dopo, al Mulino, stappando una bottiglia di retsina portata da Helena in visita, ripenso all’oracolo di Delfi. Ai vapori che facevano delirare la Pitia, al sole implacabile sui musei di Atene, alle notti sul ponte della nave.
Forse ogni viaggio è una profezia. Ogni traduzione un oracolo. Ogni bicchiere di retsina un ritorno. E ogni ritorno una nuova partenza.
CAPITOLO VIII – SPERIMENTAZIONI IBERICHE: CANTABRIA
La comunità alternativa sorge su una collina della Cantabria, dove le montagne incontrano l’oceano. Non ha un nome ufficiale. “Los nombres limitan,” dice Miguel, che mi accoglie con un abbraccio come se mi conoscesse da sempre. I nomi limitano.
Non parlo spagnolo, realizzo il primo giorno. Eppure sono qui, e in qualche modo devo comunicare.
La routine quotidiana ha il suo ritmo: meditazione all’alba, lavoro nell’orto biologico, pranzo comunitario rigorosamente vegetariano. Le verdure hanno un sapore diverso quando le hai viste crescere, quando hai le mani ancora sporche della loro terra.
“Mañana hablarás sobre Internet,” annuncia Miguel una sera. Domani parlerai di Internet. Non è una domanda.
Come si spiega una rivoluzione tecnologica in una lingua che non si conosce?
La sala comune è piena. Mi hanno prestato un maglione fatto a mano – le serate sono fresche in montagna. Guardo i volti attenti e inizio a parlare, lasciando che le parole trovino la loro strada.
“Las BBS son como… como cartas entre amigos,” improvviso. Le BBS sono come lettere tra amici. Internet è diverso – più grande, più veloce, più impersonale.
Miguel traduce quando mi incaglio, ma succede sempre meno spesso. È come se la necessità stessa di comunicare creasse il linguaggio.
“¿Pero no es peligroso?” chiede una ragazza con i dreadlock. Non è pericoloso?
Penso al Mulino, alle notti passate a programmare, alla libertà che avevamo trovato nei codici e nei comandi DOS.
“La tecnología es como un cuchillo,” rispondo. “Depende de cómo lo uses.” La tecnologia è come un coltello. Dipende da come la usi.
Nella cucina comune, mentre prepariamo il pane per l’indomani, le discussioni continuano. C’è chi vede Internet come una minaccia alla vita comunitaria, chi come uno strumento di liberazione.
“Es como tu español,” ride Miguel. “No es perfecto, pero funciona.” Non è perfetto, ma funziona.
Le serate si allungano in discussioni infinite. Il vino locale scorre, qualcuno suona una chitarra. Non è la musica sperimentale di Berlino né il bouzouki greco. È qualcosa di più semplice, più diretto.
Mi tornano in mente le BBS, quelle prime comunità virtuali dove ogni messaggio era un atto di fiducia nel buio digitale.
“¿Por qué no te quedas?” chiede Ana una sera. Perché non rimani?
La domanda risuona mentre cammino sulla spiaggia deserta. L’oceano qui è diverso dal Mediterraneo – più selvaggio, meno conciliante. Come la differenza tra le BBS e Internet.
Ma non si può fermare il cambiamento, penso. Si può solo cercare di dargli una direzione.
L’ultima sera organizziamo una cena. Ho imparato a cucinare piatti vegetariani che non sapevo possibili. Il pane che abbiamo fatto insieme ha il sapore della condivisione.
“Has aprendido más que español,” dice Miguel mentre ci salutiamo. Hai imparato più che lo spagnolo.
Ha ragione. Ho imparato che la comunicazione va oltre le parole, che la tecnologia è solo uno strumento, che le comunità possono esistere in molte forme diverse.
Sul bus che mi riporta verso la città, rileggo gli appunti della conferenza improvvisata. Le parole sono un misto di spagnolo incerto e intuizioni chiare.
Come le BBS, penso. Non perfette, ma autentiche. Non veloci, ma profonde.
L’oceano scompare all’orizzonte, ma il suo ritmo rimane.
CAPITOLO IX – SPERIMENTAZIONI IBERICHE: TECNOLOGIA
Il modem fischia nella notte come un uccello meccanico. Nella penombra della sala computer della comunità, le scintille verdi del monitor illuminano i volti curiosi. “¿Y esto es todo?” chiede qualcuno deluso. E questo è tutto?
Penso ai primi tempi delle BBS, quando ogni connessione era un piccolo miracolo. Quando il rumore del modem era una porta che si apriva su un mondo nascosto.
“No es lo que ves,” rispondo, “es lo que significa.” Non è quello che vedi, è quello che significa.
Il sistema è semplice: un computer, un modem, una linea telefonica. Ma dietro questa semplicità c’è una rete di connessioni umane, di messaggi che rimbalzano da un nodo all’altro come sussurri nella notte digitale.
“Internet es más rápido,” obietta Pablo, uno dei più giovani. Ha ragione, Internet è più veloce. Ma la velocità non è tutto.
Mentre il modem negozia la sua lenta musica tonale, spiego il concetto di decentralizzazione. Come ogni BBS sia un nodo indipendente, come i messaggi viaggino di nodo in nodo senza un centro di controllo.
“Es como nuestra comunidad,” dice Ana, cogliendo al volo il parallelo. “Cada uno es independiente, pero conectado.” È come la nostra comunità. Ognuno è indipendente, ma connesso.
Le notti si susseguono in lunghe sessioni di scoperta. Insegno i comandi base, la netiquette delle BBS, il ritmo particolare della comunicazione asincrona. C’è qualcosa di meditativo in questa lentezza forzata.
“¿Por qué resistir al cambio?” chiede Miguel una sera. Perché resistere al cambiamento?
Non è resistenza, cerco di spiegare. È consapevolezza. Le BBS ci hanno insegnato qualcosa sulla comunità digitale che non vogliamo perdere nella corsa verso il futuro.
Sul monitor, i messaggi si susseguono lentamente. Qualcuno in Germania risponde a una domanda posta giorni fa. Una BBS in Italia condivide informazioni su software libero. Un nodo in Francia offre file da scaricare.
“Es como una telaraña,” osserva Ana. È come una ragnatela. Appunto! non per nulla Internet si chiama anche web (ragnatela in inglese).
Penso al Mulino, alle connessioni che si creavano naturalmente, senza fretta. Alla differenza tra una conversazione e un monologo.
Il giovane Pablo è il più entusiasta. Passa ore a esplorare i comandi, a scoprire nuovi nodi, a stabilire connessioni. “¿Pero no es obsoleto?” chiede comunque. Ma non è obsoleto?
“La verdad nunca es obsoleta,” rispondo. La verità non è mai obsoleta.
Una notte, mentre il modem canta la sua canzone metallica, parliamo del futuro. Internet sta arrivando come una marea inarrestabile. Le BBS diventeranno storia, lo sappiamo tutti.
“Pero la historia nos enseña,” dice Miguel. Ma la storia ci insegna.
L’ultima sera, organizziamo una sessione collettiva. Ogni persona della comunità invia un messaggio, crea una connessione, lascia una traccia nella rete.
È come piantare semi, penso. Alcuni cresceranno in modi che non possiamo prevedere.
“No es una despedida,” dico mentre spengo il computer. Non è un addio.
La comunità ha deciso di mantenere il nodo BBS attivo, parallelo alla connessione Internet che arriverà. Come un ricordo vivente di un tempo in cui la lentezza era una virtù e ogni connessione era preziosa.
Il modem canta un’ultima volta nella notte. Il suo fischio è come una preghiera tecnologica, un ponte tra passato e futuro.
Non è nostalgia, mi dico mentre il bus mi porta via dalla comunità. È memoria attiva. È sapere da dove veniamo per capire dove stiamo andando.
In tasca, ho una lista di numeri di telefono di BBS. Non sono solo numeri – sono portali, sono possibilità, sono promesse di connessioni future.
CAPITOLO X – DESERTI AMERICANI: LAS VEGAS
Las Vegas sorge dal deserto come un’allucinazione collettiva, un miraggio che rifiuta di svanire all’alba. “Le camere costano pochissimo,” dice Sandra, studiando i prezzi del Luxor.
Non è un errore, penso. È matematica pura: più tempo passi qui, più soldi perdi.
Il nostro gruppo è variegato come la città stessa. Virginia col suo braccio ingessato, Mario che controlla ossessivamente la benzina, Simona che non riesce a staccarsi dal tavolo della roulette. Siamo cinque italiani nel deserto, giocando a un gioco che sappiamo di non poter vincere.
“Venticinque cent,” dice Simona inserendo una moneta nella slot machine. Il suono metallico che la inghiotte sembra una risata.
È tutto studiato, osservo in silenzio. Ogni suono, ogni luce, ogni percorso. Non ci sono finestre, non ci sono orologi. Il tempo è sospeso in un eterno presente artificiale.
“Guardate,” indica Virginia. Una macchina è incastrata su un albero alto, apparentemente impossibile da raggiungere.
“Cruise control,” spiega un locale. “Si addormentano e…” La frase rimane sospesa, come molte cose in questa città.
Mi torna in mente la San Giorgio Aromi, i suoi “naturali identici”. Qui tutto è artificiale, ma proprio per questo è paradossalmente autentico nella sua finzione.
Le auto hanno tutte i fari accesi, anche di giorno. Come sentinelle luminose in un deserto elettrico. Il calore è reale però, come la sete, come la stanchezza che si accumula dopo ore nei casinò climatizzati.
Al buffet “all you can eat”, le porzioni sono gigantesche. “Non riusciremo mai a mangiare tutto questo,” dice Simona.
La notte, la città è così luminosa che si vede dallo spazio. Mario si perde al tavolo della roulette. Virginia al blackjack. Il braccio ingessato di Virginia non le impedisce di puntare gettoni su gettoni.
“Come spieghi tutto questo?” chiede un cameriere mentre ci serve l’ennesimo refill gratuito di caffè.
Come si spiega un miraggio? Come si spiega la sete che ti fa vedere l’acqua nel deserto?
Fuori, il vero deserto attende paziente. Sa che alla fine vincerà lui. Come ogni esperienza lascia il suo segno, come ogni viaggio cambia chi lo compie.
L’ultima notte, dalla finestra del nostro hotel economico, guardo le luci che non si spengono mai. C’è una bellezza spietata in questa città, una sincerità nel suo rifiuto di ogni pretesa di autenticità.
“È tutto finto,” dice Simona, esausta dopo l’ennesima serata nei casinò.
“Proprio per questo è vero,” rispondo.
Partiamo all’alba, quando la città sembra quasi normale nella luce del mattino. Le insegne al neon sembrano fantasmi sbiaditi, come ricordi di una festa finita troppo tardi.
“Torneremo?” chiede Virginia.
Come si torna in un miraggio? penso.
Il deserto si richiude dietro di noi come se Las Vegas non fosse mai esistita. Ma i segni rimangono: nei gettoni dimenticati in fondo alle tasche, nelle foto di Sandra, nella stanchezza che ci portiamo dentro.
Abbiamo perso tutti qualcosa qui. Soldi, certo. Ma forse abbiamo guadagnato una comprensione più profonda: che a volte la verità più grande sta proprio nel permettersi di credere all’impossibile.
CAPITOLO XI – DESERTI AMERICANI: CALIFORNIA
Los Angeles è un’equazione impossibile da risolvere. Non un oblò sul mondo, ma mille specchi che riflettono il nulla. Una città che non cammina, non respira, scorre solo come acqua tra le dita.
“Trifty,” dice il benzinaio quando chiedo una mappa. Una parola sola, come quando al Mulino bastava uno sguardo per capirsi. Ma qui non capisco. Non ancora.
Solo dopo scopro che è una catena di negozi, l’equivalente della nostra Standa. Mi perdo tre volte prima di trovarla, ma forse perdersi è l’unico modo per imparare che questa è una città fatta solo per le auto.
Il centro di Los Angeles dopo le sei di sera è un paradosso vivente: i grattacieli si svuotano, le strade si riempiono di ombre. Un downtown che diventa periferia con il calare del sole, come un incantesimo al contrario.
L’ospite Servas non risponde. La TV urla attraverso la porta, ma i miei tentativi di comunicare rimbalzano nel vuoto. È una città troppo informale, penso, così informale da diventare inaccessibile.
Sui bus notturni incontro un’altra Los Angeles: lavapiatti messicani, badanti filippine, studenti senza macchina come me. “You walk?” chiedono sorpresi. Qui camminare è un atto di resistenza, quasi di sovversione.
Ma è San Francisco che cambia tutto. John mi accoglie in una casa piena di libri gay e domande non fatte. Come i tabulati pieni di confessioni nascoste, come le pareti dello Zonupatodi. Ma qui le parole sono in bella vista, senza codici da decifrare.
“Alla mia età,” dice quando accenno alla mia lettera Servas che dichiarava apertamente il mio orientamento, “sono più preoccupato per la prostata che per il sesso.” Ridiamo, ed è una risata che scioglie anni di tensione.
È l’unica città, mi spiegano, dove non danno per scontato che tu sia etero. L’orientamento sessuale è come il colore dei capelli – una caratteristica, non una definizione. Una libertà che non sapevo di cercare finché non l’ho trovata.
In alcuni quartieri il tempo si è fermato agli anni ’60. Negozi di vinili, caffetterie dove i vecchi hippie discutono ancora di rivoluzione, murales che raccontano storie di pace e amore. Capsule del tempo, penso, dove il sogno non è mai finito.
“Bio,” dicono al supermercato, molto prima che questa parola attraversi l’oceano. Comprano tutto biologico, come se il cibo potesse salvarci. Come una volta pensavamo che la musica potesse salvarci.
A Chicago, la geografia diventa un gioco crudele. “È vicino,” dice qualcuno indicando un indirizzo sulla mappa. Ma gli isolati sono mastodontici, e il numero 353 è separato dal 370 da un labirinto di strade interrotte e passaggi impossibili.
La chiave sotto lo zerbino non c’è. Come non c’erano mai risposte facili, come non c’erano mai stati percorsi già tracciati.
“C’è una festa di compleanno stasera,” dicono quando finalmente entro.
“Sono troppo stanco,” rispondo, e subito me ne pento.
Non dire mai di no, imparo quella sera, sdraiato sul letto mentre la vita accade altrove. Non come una volta, quando il no era una forma di ribellione. Ora è solo un’occasione persa.
Il jazz riempie le strade di Chicago. Ma non è più la musica che cerco di catturare – è il silenzio tra le note che mi parla.
La metropolitana sopraelevata tuona sopra le nostre teste. Un tempo avrei cercato di trasformarlo in poesia. Ora lo accetto per quello che è: il respiro metallico della città.
“Gli italiani ci piacciono,” dice qualcuno. “I tedeschi… non tanto.”
Sorrido, pensando a quanto sia strano questo mondo di pregiudizi e preferenze. Come quando essere diverso sembrava una condanna, e ora è solo un fatto, come il colore del cielo.
La solitudine del viaggio non è più un peso – è uno spazio dove le cose possono accadere. Non più la solitudine dell’oblò, non più quella dello Zonupatodi. Una solitudine scelta, abitata, quasi amata.
I grattacieli di San Francisco si stagliano contro il tramonto. Nella casa di John, i libri sembrano guardarmi con comprensione. Questa città mi ha insegnato che la libertà non è solo nei grandi gesti, ma nella naturalezza con cui accetti chi sei.
“A volte,” dice John una sera, “il silenzio dice più delle parole.”
E ha ragione. Come aveva ragione il jazz di Chicago. Come aveva ragione il traffico di Los Angeles. Come aveva ragione il mio cuore quando ha smesso di cercare musica e ha iniziato ad ascoltare il silenzio.
Queste città mi hanno insegnato,
specie SF, che la libertà più grande
è quella di essere semplicemente se stessi,
senza dover spiegare,
senza dover nascondere,
senza dover essere altro
che ciò che sei.
CAPITOLO XII – SILENZI D’ORIENTE: GIAPPONE
L’abbonamento ai treni costa ottocentomila lire. “No Shinkansen,” ci avvertono, come se ci stessero escludendo da un rito sacro. I treni proiettile sono per un altro tipo di viaggiatore, non per noi con i nostri zaini consumati e le nostre guide sgualcite.
“Come spieghi Berlusconi a un giapponese?” chiede Simona mentre cerchiamo di decifrare una mappa della metropolitana di Tokyo. I caratteri sono un labirinto più complesso dei miei vecchi tabulati. Alcune cose, scopro, sono intraducibili non per mancanza di parole, ma per eccesso di distanza culturale.
A Kyoto, il dojo è ancora tradizionale. “Vedi?” dice Simona, gli occhi lucidi. “Qui è rimasto tutto autentico.” Come fosse possibile, penso, rimanere immobili quando il mondo intero è in movimento.
Le bottiglie di vino liquoroso che abbiamo portato dall’Italia vengono accolte con inchini profondi. Non più la musica del Mulino a fare da ponte tra le culture, ma questi piccoli gesti di rispetto reciproco.
Una famiglia ci “affitta” una stanza invece di ospitarci – un modo elegante per mantenere le distanze senza ferire. Come una volta imparavo a dire la verità nascondendola tra i programmi.
“No fish,” disegno al ristorante, cancellando un pesce con una X. Il cameriere annuisce con la gravità di chi sta assistendo a una cerimonia del tè. I modelli di plastica del cibo brillano nelle vetrine, perfetti e irreali. Come i “naturali identici” della San Giorgio, come le verità che costruiamo per renderle più digeribili.
La sera, il bagno termale è un rituale che non capisco ma rispetto. Costa un occhio della testa, ma il silenzio nell’acqua calda vale ogni yen.
“Gaijin,” sussurra qualcuno. Straniero. Non più una ferita, come quando essere diverso faceva male. Ora è solo un fatto, come il vapore che sale dall’acqua.
Tokyo è un formicaio ordinato, una contraddizione che funziona. La metropolitana ingoia e sputa milioni di persone in un silenzio quasi religioso.
“Come fanno?” chiedo a Laura.
“Non fanno,” risponde. “Sono.”
Le uova dei cent’anni per Enzo viaggiano nella mia valigia come un talismano. Un regalo impossibile per un amore possibile. Come una volta portavo messaggi nascosti nei programmi, ora porto questi gusci fragili attraverso i continenti.
“Oishii,” dicono quando apriamo il vino. Delizioso. Una delle poche parole che imparo, una delle poche che servono davvero.
Il Giappone mi ha insegnato che il silenzio può essere più denso delle parole. Che l’ordine non è il contrario del caos, ma un suo modo particolare di esprimersi.
Non è la lingua la barriera, realizzo una sera, guardando la città dall’alto di un grattacielo. È tutto il resto. O forse niente.
Come spiegare la politica italiana? Come tradurre chi siamo? Come far capire che veniamo da un mondo dove il rumore è la norma?
Ma forse non serve. Forse il vero viaggio è questo: imparare la lingua del silenzio. Come i treni che passano senza un suono. Come gli inchini che dicono più delle parole. Come l’acqua calda che lava via tutte le domande superflue.
E lascia solo quelle essenziali.
Quelle che non hanno bisogno di una risposta.
Mi torna in mente il coordinatore Servas di Istanbul, e il suo modo diverso di intendere l’ospitalità. Qui l’accoglienza ha un altro ritmo, un altro significato. È precisa come un orologio, delicata come un fiore di ciliegio.
L’ultima sera, seduto sul tatami della stanza in affitto, guardo la luna attraverso la finestra di carta. Non è più l’oblò delle meraviglie della mia infanzia. È una cornice che trasforma il mondo in un giardino zen, dove ogni pietra ha il suo posto, e il vuoto è importante quanto il pieno.
CAPITOLO XIII – SILENZI D’ORIENTE: INDIA
Il fuso orario è una bestia che mastica il tempo. La febbre arriva silenziosa come una melodia dimenticata. Gli altri partono per il Tibet, io resto indietro. Non più la musica del Mulino a tenermi compagnia, solo il ronzio dei ventilatori e il caos della strada.
“YMCA,” dice qualcuno, indicando un edificio coloniale. La colazione diventa un rituale nuovo, necessario. Come una volta era necessario nascondere messaggi nei tabulati, ora è necessario ancorarsi a qualcosa di familiare in questo mare di estraneità.
Il bramino mi accoglie nella sua casa con una gentilezza che non chiede spiegazioni. Gli do dei soldi per dei libri che non vedrò mai. Non importa – ho imparato che alcune promesse esistono solo per insegnarci a lasciare andare.
“Mumbai,” decido, perché da lì c’è l’aereo per il ritorno, sia pure in anticipo di tre settimane. La città dei sogni di celluloide.
Il treno è un universo in movimento. Non il ritmo ordinato dello Shinkansen giapponese, ma una mistura caotica di corpi, odori, vite compresse. Le ore si dilatano come note tenute troppo a lungo.
“Qual è la tua connessione con me?” chiedono le persone che contatto tramite Servas.
La verità è che non ne ho. Come non ho più bisogno di appartenere a nulla. La febbre mi ha insegnato che anche la disconnessione può essere una forma di libertà.
La febbre va e viene come le maree del Mar Arabico. Nei momenti di lucidità, osservo Mumbai attraverso una finestra appannata. Non più l’oblò delle meraviglie, ma una finestra sulla realtà che si rifiuta di essere catalogata.
“In India,” dice un viaggiatore incontrato in stazione, “non vieni per trovare risposte. Vieni per capire quali sono le vere domande.”
Le strade sono un labirinto di contraddizioni. I venditori di chai gridano le loro offerte mentre i corvi danzano tra i fili del telefono. La febbre rende tutto più surreale, più intenso.
“Stai bene?” chiede una voce al telefono dall’Italia. È una domanda complessa.
Sto male nel modo giusto, vorrei rispondere. La malattia è diventata una lente attraverso cui vedere più chiaramente.
La febbre quasi diventa amica. Mi permette di galleggiare sopra tutto questo, di osservare senza dover per forza capire. Come quando da bambino guardavo il mondo attraverso il vetro rotondo della lavatrice, ma ora sono io ad essere in movimento, in rotazione, in trasformazione.
Il vecchio ventilatore gira pigro sul soffitto della stanza d’albergo. Le sue pale disegnano ombre che sembrano messaggi in codice morse. Un tempo avrei cercato di decifrarli. Ora lascio che rimangano mistero.
“Tornerai?” chiede il bramino quando vado a salutarlo.
“Non lo so,” rispondo con onestà. “Ma porterò con me qualcosa.”
Non sono i libri mai arrivati, non le foto mai scattate. È qualcos’altro: la comprensione che a volte bisogna perdersi completamente per ritrovarsi. Che la malattia può essere una forma di illuminazione. Che il fallimento di un viaggio può essere il suo vero successo.
L’aeroporto di Mumbai è un caos organizzato di partenze e arrivi. La febbre è quasi sparita, lasciando dietro di sé una strana chiarezza.
Non più la ricerca spasmodica di un senso, penso mentre l’aereo decolla. Solo l’accettazione che alcuni viaggi non hanno una destinazione.
EPILOGO – SPIRALI DI RITORNO
La lavatrice del nuovo appartamento ha un oblò perfettamente circolare. Lo guardo e sorrido – non è più una finestra sul mondo, è uno specchio che riflette chi sono diventato.
Come una vecchia canzone che risuona diversa dopo anni di silenzio, come un programma che finalmente funziona proprio grazie ai suoi bug.
“Non ti manca,” chiede qualcuno, “l’energia di una volta?”
Mi manca, penso, come manca una scala musicale che hai suonato mille volte. Ma ora conosco altre melodie.
La carta da macero, i libri in russo, i tabulati pieni di confessioni – tutto è diventato digitale. Ma la poesia non è nei mezzi, è nel messaggio.
“Come fai a vivere senza strutture?” chiedono gli amici di Servas.
“Come fa l’acqua a scorrere senza canali?” rispondo.
Il Mulino era una scuola di caos creativo. Lo Zonupatodi un laboratorio di libertà. Ma ora ogni luogo può essere casa, se impari ad abitare il silenzio tra i rumori.
I vecchi vinili sono in uno scatolone. Non li ascolto più, ma non li butto. Sono come le organizzazioni che ho lasciato – parte di un percorso necessario, di una strada che dovevo percorrere per arrivare qui.
In questa imperfezione perfetta.
La San Giorgio mi ha insegnato che “naturale identico” non significa “falso”. Come l’autenticità non significa perfezione, ma accettazione.
“Non hai più paura di perderti?” chiede chi ancora non capisce.
“Mi sono già perso mille volte,” rispondo. “È così che ho trovato la strada.”
Le città che ho attraversato – Manhattan, Los Angeles, Tokyo, Delhi – sono come accordi di una lunga composizione. Non più una canzone di protesta, non più un inno di ribellione. Una sinfonia di silenzi e rumori, di ordine e caos.
L’India mi ha insegnato che il caos ha il suo ordine.
Il Giappone che il silenzio ha la sua musica.
Il deserto che la solitudine ha la sua compagnia.
E l’oblò? L’oblò mi ha insegnato che ogni finestra è uno specchio, che ogni confine è una porta, che ogni fine è un inizio.
I bit danzano sullo schermo del computer come una volta danzavamo noi al Mulino. Il codice ha i suoi ritmi, i suoi tempi, le sue pause.
Non cerco più la perfezione, realizzo guardando il mio riflesso nell’oblò. Ho trovato qualcosa di meglio.
“E ora?” chiede l’oblò, come una volta.
“Ora vivo,” rispondo. “Semplicemente vivo.”
Forse questo è il vero viaggio, penso mentre il sole tramonta sulla città. Non quello che ti porta lontano, ma quello che ti porta a casa. Non quello che ti cambia, ma quello che ti fa accettare chi sei sempre stato.
La lavatrice inizia il suo ciclo, l’acqua gorgoglia come un ruscello sotterraneo. Attraverso l’oblò, il mondo appare leggermente distorto, perfettamente imperfetto.
Come noi, penso. Come tutti noi.
E finalmente, dopo tutti questi anni, dopo tutti questi viaggi, dopo tutte queste trasformazioni, sorrido al mio riflesso nell’oblò.
E il riflesso, per la prima volta, sorride indietro.

Leave a comment