Prologo: Le Onde della Memoria
“Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò…”
(L’anno che verrà – Lucio Dalla, 1979)
Ci sono viaggi che non finiscono mai veramente. Continuano a vibrare dentro di noi, come corde di uno strumento che qualcuno ha sfiorato anni fa. A volte sono onde che tornano, portando con sé frammenti di vita vissuta: l’odore del pane appena sfornato nel Mulino, il suono di risate nella notte di Val della Torre, il calore di corpi che si cercano nell’oscurità di una stanza sconosciuta a Belfast.
Questa è la storia di uno di quei viaggi. Non inizia in un punto preciso – le storie vere non lo fanno mai – ma prende forma in un treno verso Belfast, in quell’estate inquieta degli anni ’80, quando tutto sembrava possibile e terribile allo stesso tempo. Era un’epoca in cui le identità si scontravano come le onde del mare d’Irlanda: dure, insistenti, inevitabili.
È una storia di radici. Di quelle che spezzi per poter crescere e di quelle che, sorprendentemente, trovi nei luoghi più inaspettati. Di corpi che imparano a parlare lingue nuove, di desideri che trovano il coraggio di dire il proprio nome. È una storia di porte che si aprono e si chiudono, di mulini che diventano rifugi, di amicizie che trasformano, di amori che bruciano e di amori che nutrono.
Ma soprattutto è una storia di scoperte: a volte scopri che le cose per cui ti sei tanto affannato possono andare avanti anche senza di te, e forse è proprio questa la lezione più importante. Scopri che l’amore può avere mille forme diverse, e che ognuna è valida quanto l’altra. Scopri che la libertà non è un punto d’arrivo, ma un modo di camminare.
È una storia di voci e di corpi. Di voci che cantano, che protestano, che sussurrano nelle notti di luna piena. Di corpi che si cercano nell’oscurità, che imparano a parlare nuovi linguaggi di desiderio, che trovano casa l’uno nell’altro. Di voci che ridono dell’assurdità della vita, della serietà con cui prendiamo cose che forse, viste da lontano, serie non sono poi così tanto.
È un viaggio attraverso spazi che diventano luoghi dell’anima: una soffitta dove si celebrano rituali lunari, una cucina dove il pane lievita come una preghiera, un letto dove due corpi imparano a parlarsi senza parole. È un viaggio attraverso il tempo, ma soprattutto attraverso le trasformazioni: da ragazzo che cerca disperatamente se stesso a uomo che impara ad abitare il proprio corpo, la propria storia, il proprio desiderio.
E come ogni viaggio che vale la pena di essere raccontato, è anche una storia d’amore. Non una, a dire il vero, ma tante: alcune brucianti come il sole del Marocco, altre nutrienti come il lievito madre che Enzo cura ogni giorno. Amori che finiscono e amori che trasformano, amori che feriscono e amori che guariscono.
Questa è una storia di libertà. Non quella urlata nelle manifestazioni o scritta sui muri, ma quella più sottile e più preziosa: la libertà di essere se stessi, di amare chi si vuole, di creare spazi dove altri possano trovare il coraggio di fare lo stesso.
Capitolo I: Il Treno per Belfast
“Le cinque anatre che volavano a sud nel cielo grigio della sera sembravano pronte ad affrontare il duro viaggio verso terre lontane…”
(Le cinque anatre – Francesco Guccini, 1978)
Il treno attraversava la terra di nessuno, cinquecento chilometri di campagna irlandese che scorrevano oltre il finestrino come un film in bianco e nero. I militari passavano regolarmente, controllando i documenti per l’ennesima volta, i loro occhi duri che cercavano segni di qualcosa che non avrebbero saputo definire. L’atmosfera era tesa, carica di un’elettricità invisibile che sembrava permeare ogni vagone.
“Molto prima del tempo l’inverno è arrivato,” pensai guardando il cielo plumbeo che incombeva sulla campagna irlandese. Non era ancora autunno, ma qui il grigio sembrava permanente, come se il sole avesse dimenticato questa parte del mondo.
“Prima volta in Irlanda del Nord?” Una voce femminile interruppe i miei pensieri. Mi voltai e vidi due ragazze sedute di fronte a me. Una aveva capelli castani raccolti in una treccia disordinata e occhi vivaci che brillavano di curiosità intelligente.
“Si vede tanto?” risposi, tentando di mascherare il nervosismo con un sorriso.
“Solo gli stupidi o i turisti vengono qui per scelta,” sorrise la prima. “Mi chiamo Monica. Lei è Sandra.”
La sua amica annuì, lo sguardo determinato. “Facciamo turismo politico,” spiegò. “Per capire, per vedere di persona. Le cose qui non sono come le raccontano i giornali.”
Sandra aveva una macchina fotografica al collo, il tipo di strumento che sembrava una naturale estensione del suo corpo. “Le immagini dicono più delle parole,” aggiunse, notando il mio interesse. “Soprattutto quando le parole sono state usate troppe volte per mentire.”
Belfast ci accolse con un cielo ancora più basso, muri dipinti e filo spinato. Non era la città che mi aspettavo. I murales raccontavano storie di morti, di eroi, di martiri. Ogni angolo sembrava gridare una storia di dolore e resistenza. Il confine tra arte e propaganda si faceva sottile, quasi invisibile.
“Vieni con noi,” disse Monica. Non era una domanda. “C’è un posto che dovresti vedere.”
Mi ritrovai in una sala piena di fumo, voci che si sovrapponevano in accenti diversi. La stanza era nel retro di un pub che dall’esterno sembrava abbandonato. All’interno, però, pulsava di vita e di passione. Qualcuno stava parlando dei Troubles, della guerra civile, della pace che sembrava impossibile da raggiungere.
Mi persi nell’osservazione dei corpi che si muovevano nello spazio fumoso: ragazzi locali dai lineamenti duri e occhi gentili, turisti politici come noi che cercavamo di capire, di toccare con mano quella realtà così lontana e così vicina. C’era qualcosa di elettrico nell’aria, una tensione che andava oltre le parole.
“Il problema non è la religione,” stava dicendo un ragazzo con passione, il suo corpo teso come una corda di violino. “È l’identità. È sempre questione di identità. Chi siamo, chi ci dicono che siamo, chi vogliamo essere.”
Lo guardai e pensai a quanto fosse vero. Anche per me, anche per noi. L’identità: quella che ci viene imposta e quella che scegliamo, quella che scopriamo nei momenti più inaspettati, quella che ci spaventa e ci attrae allo stesso tempo.
Monica e Sandra prendevano appunti, facevano domande. Le loro domande erano precise, taglienti come bisturi. Non cercavano il sensazionalismo, ma la verità nascosta sotto strati di propaganda e pregiudizi. Io ascoltavo, come sempre. Il mio ruolo preferito: osservatore silenzioso. Osservavo i gesti, gli sguardi, le tensioni non dette che attraversavano la stanza come correnti elettriche.
“Vedi quella ragazza?” sussurrò Sandra, indicando discretamente una giovane donna in un angolo. “Suo fratello è stato ucciso tre mesi fa. Era cattolico, stava tornando a casa dal lavoro. Una pallottola vagante, dicono. Ma qui le pallottole non vagano mai per caso.”
La ragazza aveva occhi che sembravano aver visto troppo. Teneva una birra in mano ma non la beveva. Il suo sguardo era fisso su un punto indefinito del muro, come se stesse guardando un film che solo lei poteva vedere.
Londra mi aspettava, con i suoi quartieri gay e le sue promesse di libertà. Ma avevo perso le lenti a contatto durante il viaggio, e senza di esse il mondo era sfocato, incerto. Forse era meglio così. A volte bisogna perdere la nitidezza per vedere davvero.
Passammo giorni a camminare per le strade di Belfast. Monica e Sandra mi guidavano attraverso un labirinto di storie e significati nascosti. Ogni muro aveva una storia da raccontare, ogni strada era un confine invisibile tra mondi che si rifiutavano di toccarsi.
E una preda cadere, continuava la voce nella mia testa mentre visitavamo i quartieri cattolici, poi quelli protestanti. Le divisioni sembravano così nette, così definitive. Eppure, nei pub la sera, vedevo come i corpi trovavano modi di superare quelle barriere, come gli sguardi si incrociavano oltre i confini invisibili della città.
“È questo che non ti dicono mai,” disse Monica una sera, mentre tornavamo al nostro ostello. “Come l’amore trova sempre un modo. Anche qui, anche ora. Soprattutto qui, soprattutto ora.”
Le sue parole risuonarono dentro di me come una campana. Pensai a tutti gli amori nascosti, a tutti i desideri inespressi, a tutte le identità soffocate che aspettavano il momento giusto per emergere.
Settimane dopo, il campanello suonò inaspettato nella mia casa di Torino.
“Indovina chi c’è?” gridò Enzo, la sua voce che vibrava di un’eccitazione contagiosa.
Monica e Sandra erano lì, sorridenti, le loro macchine fotografiche ancora al collo come fedeli compagne di viaggio. Stavano andando da Ebby, dissero. Un altro viaggio, un’altra storia da documentare.
“Vieni con noi?”
E così, come un’anatra che ritrova il suo stormo, li seguii. Verso una nuova avventura, verso un nuovo capitolo della mia vita. Perché a volte bisogna perdersi per ritrovarsi. A volte bisogna volare via per capire dove è casa.
Le cinque anatre continuavano il loro viaggio verso sud, mentre noi cercavamo la nostra direzione in un mondo che sembrava sempre più complicato. Ma forse era proprio questa la bellezza: non sapere esattamente dove si sta andando, ma continuare a volare comunque.
“E così le anatre volavano a sud mentre il sole calava lento all’orizzonte e il loro numero diminuiva… quattro… tre… due…”
Capitolo II: La DEP e i Suoi Re
“Il carrozzone va avanti da sé con le regine, i suoi fanti, i suoi re …”
(Il Carrozzone – Renato Zero, 1979)
Il carrozzone va avanti da sé, pensavo mentre salivo le scale di via Corta. L’edificio della DEP si stagliava davanti a me, grigio e anonimo come tanti altri palazzi del centro, ma dentro nascondeva un mondo che stava per cambiare la mia vita. A volte le radici più importanti crescono nei luoghi più improbabili, e la Divisione Elaborazione Dati era uno di questi: un teatro dell’assurdo dove ogni giorno si recitava una commedia diversa, con attori che non sapevano di essere tali.
“Sei il nuovo programmatore?” chiese una voce dal corridoio buio. Era Emilio Montello, camicia stropicciata e occhiali spessi che gli scivolavano continuamente sul naso. La sua figura emergeva dall’ombra come un personaggio di Kafka, burocrate e poeta allo stesso tempo. “Vieni, ti mostro il tuo posto.”
Mi guidò attraverso un labirinto di scrivanie, ognuna un microcosmo a sé stante. C’erano i veterani del COBOL, arroccati nelle loro postazioni come nobili decaduti, aggrappati a un linguaggio che stava già diventando obsoleto. Poi c’erano i giovani ribelli del Pascal, convinti di poter rivoluzionare il mondo con qualche riga di codice. Ogni postazione era un regno a sé, con i suoi riti e le sue regole. Con le sue regine, i suoi fanti, i suoi re.
La mia scrivania era nell’angolo più remoto dell’ufficio, sotto una finestra che si affacciava su un cortile interno. La luce naturale era un lusso in quel regno di neon e schermi fosforescenti. I programmatori erano come una tribù antica, con i loro dialetti fatti di COBOL e Pascal, i loro rituali di debug, le loro guerre silenziose combattute a colpi di codice.
“Il sistema è un po’ datato,” mi spiegò Emilio, accendendo il terminale con la reverenza di chi maneggia una reliquia sacra. “Ma funziona. In qualche modo, funziona sempre.”
Le prime settimane furono un’immersione in un mondo parallelo. Imparai i ritmi della DEP, le sue regole non scritte, i suoi personaggi ricorrenti. C’era Maria della contabilità, che parlava ai suoi registri come se fossero creature viventi. C’era Giorgio del mainframe, che trattava il computer centrale come un dio capriccioso da placare con offerte di caffè e bestemmie sussurrate.
“Dovresti conoscere Renato,” dissi un giorno a Emilio, pensando a come il mio amico si sarebbe trovato a suo agio in quel circo quotidiano. “È perfetto per questo ambiente.”
“Il tuo amico del Mulino?”
Mi stupii che conoscesse quel dettaglio della mia vita privata. Mi chiesi cosa altro sapesse, quali altri segreti circolassero nei corridoi della DEP come fantasmi elettronici nei cavi del mainframe.
“Le voci corrono,” sorrise, con quella sua aria di chi sa più di quanto dovrebbe. “E poi, tutti abbiamo avuto il nostro Mulino.” C’era qualcosa nel suo sguardo, una complicità non detta, che mi fece pensare che forse capiva più di quanto lasciasse intendere.
Rè – come lo chiamavamo noi – arrivò come una brezza irriverente in quel mondo di procedure e protocolli. Dove io vedevo problemi da risolvere, lui vedeva occasioni per ridere. Dove io costruivo sistemi complessi, lui trovava scorciatoie geniali nella loro semplicità. Il suo arrivo fu come aprire una finestra in una stanza chiusa da troppo tempo.
“Ti fai troppi problemi,” mi diceva sempre Rè, sdraiato sulla sua sedia con i piedi sulla scrivania, un atteggiamento che faceva impazzire il capo ufficio. “Il sistema funziona lo stesso.”
Ed era vero, paradossalmente. Più lui prendeva le cose alla leggera, più tutto sembrava funzionare senza intoppi. Era una lezione di vita nascosta in un ufficio di programmazione: a volte le cose vanno avanti da sole, nonostante – o forse proprio grazie a – un po’ di sano menefreghismo.
Le pause caffè con Rè diventarono un rituale quotidiano. Scendevamo al bar all’angolo, dove lui flirtava spudoratamente con la barista mentre io cercavo di nascondermi dietro la tazzina. Era come se vivesse in un mondo parallelo dove le regole normali non si applicavano, e in qualche modo riusciva a trascinare anche gli altri in questa sua dimensione alternativa.
“Girolamo potrebbe essere interessato,” dissi un giorno a Emilio, pensando a come il mio amico si sarebbe inserito in quel strano ecosistema. “Sa saldare, ma impara in fretta.”
Girolamo arrivò portando con sé un’energia diversa dalla scanzonata irriverenza di Rè. Aveva una capacità di vedere oltre le apparenze che lo rendeva unico, una serietà che si sposava perfettamente con la mia ma che sapeva anche sciogliersi in risate quando Rè faceva una delle sue uscite memorabili.
“È come fare puzzle,” disse mentre imparava il COBOL, i suoi occhi che brillavano davanti allo schermo verde fosforescente. “Solo che i pezzi li crei tu.”
Camminavamo insieme verso il lavoro ogni mattina, attraversando le piazze verdi della città. Il percorso diventava un rituale, un momento per parlare di codice, di vita, di futuro. A volte, nei bar dove ci fermavamo per il caffè, i nostri corpi si sfioravano in quella danza inconsapevole di chi sta ancora imparando i confini del proprio spazio nel mondo.
“Sai qual è la differenza tra te e me?” mi disse un giorno Rè mentre prendevamo un caffè, il suo sorriso sornione che nascondeva una saggezza inaspettata. “Tu pensi che il mondo si fermi se non ci sei tu a spingerlo. Io so che gira comunque.”
La DEP era diventata uno strano equilibrio tra il mio perfezionismo, la leggerezza di Rè e la praticità di Girolamo. Era come un’orchestra dove ogni strumento suonava la sua melodia, creando una sinfonia imperfetta ma sorprendentemente armoniosa. Quando mi spostarono su altri progetti, fu naturale che Rè prendesse il mio posto.
“Non ti preoccupare,” mi disse con il suo sorriso sornione, appoggiandosi alla mia – ora sua – scrivania. “Manterrò vivo il tuo spirito. Beh, magari non proprio tutto…”
E così fu. I sistemi che avevo costruito con tanta dedizione, i processi che avevo ottimizzato passando notti insonni, tutto continuava a funzionare sotto la gestione molto più rilassata di Rè. Era una lezione di umiltà, ma anche di liberazione.
Tutto continua anche senza di te, pensai guardando le luci della città dalla mia nuova postazione al quinto piano. E forse era proprio questo il punto: continuare, evolvere, trovare nuove strade. Imparare che ogni regno ha il suo tempo, ogni re la sua stagione.
“Non è il codice che conta,” disse Girolamo una sera mentre uscivamo insieme, Rè che ci precedeva facendo il pagliaccio come suo solito. “È quello che il codice ti insegna su te stesso.”
La DEP continuava la sua vita, come un organismo complesso fatto di persone, macchine e rituali quotidiani. Le stagioni passavano, i sistemi venivano aggiornati, le persone andavano e venivano, ma qualcosa rimaneva immutato: quella strana magia che trasformava un ufficio grigio in un teatro di possibilità infinite.
E il carrozzone continuava la sua corsa, con tutti noi a bordo. Senza nessuna pretesa, come nella canzone di Zero. Ma noi avevamo imparato a ballare al nostro ritmo, a cantare la nostra canzone.
“Il carrozzone va avanti da sé Uno alla volta si scende, si sale Chi c’è c’è, chi c’era c’era E ognuno gioca la sua partita…”
Capitolo III: Val della Torre – Libertà e Confini
“Ho visto anche degli zingari felicicorrersi dietro, far l’amore
e rotolarsi per terra.
Io ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra…”
(Ho visto anche degli zingari felici – Claudio Lolli, 1976)
La Vespa affrontava l’ennesima curva sulla strada per Val della Torre, il motore che protestava ad ogni cambio di marcia. Le prime montagne della Val di Susa si stagliavano contro il cielo come guardiani silenziosi di un mondo che stava per cambiarmi per sempre. Un mondo dove le regole erano diverse, dove la libertà aveva un sapore che non avevo mai assaggiato prima.
L’aria profumava di erba tagliata e di qualcosa di più selvaggio – forse pino, forse libertà. Le case si diradavano man mano che ci allontanavamo dalla città, lasciando spazio a prati che sembravano infiniti sotto il sole di giugno.
“Benvenuti nel paese delle meraviglie,” disse Vincenzo, facendoci un inchino teatrale mentre ci accoglieva sulla porta di casa. Il suo sorriso era contagioso, il suo corpo si muoveva con una grazia naturale che catturava lo sguardo. Era bello di quella bellezza sfacciata che non chiede permesso, che non si scusa di esistere. I suoi movimenti erano naturalmente sensuali, come se il suo corpo avesse trovato una libertà che la maggior parte di noi ancora cercava.
La casa era un mix eclettico di stili e epoche: mobili antichi ereditati chissà da chi si mescolavano con poster politici e foto di manifestazioni. L’aria profumava di incenso e caffè, e da qualche parte si sentivano gli echi di una canzone spensierata.
Carlo, il suo compagno, osservava la scena dall’ombra del portico, una sigaretta che gli pendeva dalle labbra in un modo che sembrava studiato ma non lo era. I suoi occhi avevano una dolcezza che contrastava con la sfrontatezza di Vincenzo, ma c’era anche una forza tranquilla nel suo modo di esistere, di amare, di proteggere il loro spazio comune.
“Qui tutti sanno tutto di tutti,” spiegò Vincenzo, muovendosi per la casa con la grazia di un ballerino, mentre ci mostrava le varie stanze. Gli specchi sembravano moltiplicare i suoi movimenti, creando un caleidoscopio di gesti e sorrisi. “E a nessuno importa niente.” Lo disse con un orgoglio feroce, come una dichiarazione di indipendenza.
La cucina era il cuore della casa, un ambiente caldo e accogliente dove il tempo sembrava scorrere a un ritmo diverso. Le pentole di rame alle pareti brillavano nella luce del pomeriggio, e l’odore di basilico fresco si mescolava a quello del caffè sempre pronto sul fornello.
“Il caffè è sempre pronto per bollire” disse Carlo, versandocene una tazza. “Come a Napoli. La porta è sempre aperta. Chi viene viene, chi va va.”
Era come se avessero creato il loro piccolo regno di libertà, dove le regole del mondo esterno non potevano entrare. O almeno, così credevamo allora.
Le giornate a Val della Torre avevano un ritmo tutto loro. La mattina, il sole entrava dalle grandi finestre illuminando i pavimenti in cotto. Vincenzo faceva yoga in giardino, il suo corpo che si muoveva come acqua sotto la luce dorata dell’alba. Carlo preparava la colazione per tutti, pane tostato e marmellate fatte in casa, mentre Radio Popolare diffondeva le notizie del giorno.
“Sono andato a letto con metà dei ragazzi del paese,” annunciò una sera Vincenzo, dopo troppo vino rosso, gli occhi che brillavano di malizia e sfida. Eravamo seduti nel giardino, le lucciole che danzavano intorno a noi come stelle cadute. “E con un terzo di quelli dei paesi vicini.” Lo disse come si potrebbe dire che aveva fatto una passeggiata, senza vergogna, senza scuse.
Carlo alzò gli occhi al cielo, ma sorrise. Il loro amore aveva la solidità di chi ha superato le tempeste e ha scelto di restare. “Non è con quanti vai a letto,” disse Carlo con quella sua calma saggia, passando le dita tra i capelli di Vincenzo. “È con quanta verità lo fai.”
Il giardino era il loro vero capolavoro: un mix selvaggio di rose rampicanti, erbe aromatiche e alberi da frutto. Di notte, con le luci delle candele, diventava un luogo magico dove tutto sembrava possibile. Era lì che si tenevano le feste più memorabili, dove i confini tra amicizia e desiderio si facevano sfumati come i contorni delle montagne al crepuscolo.
Una domenica, nella scuola dove il padre di uno di noi faceva il portinaio, ci ritrovammo in tanti. L’edificio vuoto aveva un’aria surreale, con i corridoi silenziosi e le aule deserte che sembravano aspettare qualcosa. Vidi uno dei ragazzi che il giorno prima baciava una ragazza, oggi stava con un’altra. “Sta con l’altra,” dissi ad alta voce, senza pensare, la mia voce che rimbalzava contro le pareti vuote.
Il silenzio cadde come una mannaia. Gli sguardi si indurirono. L’atmosfera si gelò istantaneamente, come se qualcuno avesse spento un interruttore.
“Ci sono regole non scritte,” mi spiegò dopo Carlo, mentre camminavamo nel cortile della scuola. Le sue parole erano gentili ma ferme. “Anche nella libertà.” Non era un rimprovero, ma una lezione di vita. “La discrezione non è ipocrisia. È rispetto.”
La seconda lezione arrivò da Vincenzo stesso, e fu più dura da digerire. Durante un picnic nei boschi sopra Val della Torre, dove l’aria profumava di pino e libertà, trovai il suo diario incustodito su una roccia. Era un quaderno dalla copertina consunta, pieno della sua scrittura nervosa e appassionata. Lessi qualche pagina, pensando che in questo regno di libertà non ci fossero segreti.
La sua rabbia quando lo scoprì fu terrificante. I suoi occhi, solitamente così pieni di malizia e gioia, erano ora due pozzi di furia gelida. “Come hai potuto?” urlò, la sua voce che echeggiava tra gli alberi. “Pensavo fossi diverso!”
La libertà aveva i suoi confini, anche qui. Perfino qui.
Zeno arrivò come una tempesta in questo equilibrio precario, portando con sé un’energia nuova e destabilizzante. Era alto, con occhi scuri che sembravano guardare sempre oltre ciò che c’era davanti. Vincenzo lo guardò come un predatore guarda la preda, ma con una tenerezza inaspettata negli occhi.
L’esperimento di Zeno fu l’ultima goccia, non potevo non pensarci. Qualcosa doveva cambiare.
Mi chiusi sempre più in me stesso, frequentando più assiduamente Girolamo che stava tappato in casa ad ascoltare musica. La sua stanza diventò il mio rifugio, un posto dove il mondo esterno con le sue complicazioni sembrava più lontano. Rè passava ogni tanto, portando il suo umorismo caustico e la sua capacità di ridere di tutto, anche del dolore.
“Forse dovremmo andare via,” suggerì un giorno Girolamo, mentre ascoltavamo l’ultimo album dei Joy Division. La sua voce era calma, ma c’era una determinazione nuova nel suo sguardo.
“Dove?”
“Montanaro. Costa poco.”
La decisione maturò come un frutto avvelenato. La libertà di Val della Torre era diventata una gabbia dorata. Vincenzo era stato il primo a mostrarmi che si poteva essere se stessi senza compromessi, che l’amore poteva essere urlato invece che sussurrato. Ma ora quella stessa libertà mi stava soffocando.
Forse è proprio questo il punto: cercare, sbagliare, rialzarsi. E continuare a cercare la nostra personale forma di libertà.
L’ultima sera a Val della Torre, il cielo era di un viola intenso, come una livida promessa di temporale. Vincenzo e Carlo ci salutarono sulla porta, i loro corpi che si stagliavano contro la luce calda che veniva dall’interno della casa.
“Tornerete,” disse Vincenzo, ma non era chiaro se fosse una predizione o una speranza.
E mentre la Vespa ci portava via da Val della Torre, pensai che forse anche noi eravamo come quegli zingari di cui cantava Lolli: a volte felici, a volte tristi, sempre in cerca della nostra strada nella pioggia.
“È vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
e odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici…”
Capitolo IV: Le Notti Segrete di Val della Torre
“Tu lo chiami amore e non lo vedi
eppure lo chiedi
col falso pudore che ha
chi provoca l’amore e non ne da.“
(La casa del serpente – Francesco Guccini, 1983)
Le notti a Val della Torre avevano un ritmo completamente diverso dai giorni. Mentre il sole illuminava una quieta comunità montana, l’oscurità liberava desideri e possibilità che la luce non osava mostrare. La casa di Vincenzo e Carlo diventava un porto franco, un territorio dove le regole del mondo esterno si dissolvevano come nebbia al sole.
I vecchi vinili giravano sul piatto, Leonard Cohen si mescolava a Battiato, creando una colonna sonora per questi rituali notturni. Le candele proiettavano ombre danzanti sulle pareti, trasformando volti familiari in maschere misteriose.
“Stasera viene Marco,” annunciò Vincenzo una sera, mentre apparecchiava la tavola con una cura che tradiva l’importanza dell’evento. I bicchieri di cristallo, ereditati da qualche zia dimenticata, brillavano nella luce soffusa. “Il figlio del macellaio.” I suoi occhi brillavano di quella luce particolare che avevo imparato a riconoscere, un mix di malizia e tenerezza. “È curioso… di esplorare.”
Carlo, dalla cucina, emise un suono che poteva essere tanto di approvazione quanto di rassegnazione. Il profumo del suo risotto allo zafferano riempiva la casa, mescolandosi con l’odore dell’incenso e del vino appena stappato. La loro relazione aveva regole proprie, una libertà conquistata attraverso anni di fiducia e comprensione reciproca.
Le serate si svolgevano sempre secondo un rituale non scritto. Prima la cena, elaborata e sensuale come un preludio. Poi il vino, che scioglieva le lingue e le inibizioni. Infine quella particolare atmosfera dove i confini tra amicizia e desiderio diventavano sfumati come i contorni delle montagne al crepuscolo.
“Non capisco come fai,” disse una sera un ragazzo del paese a Vincenzo. Era giovane, forse diciannove anni, con quella bellezza acerba tipica delle valli. Le sue mani giocavano nervosamente con il bicchiere di vino. “A essere così… libero.”
“Non sono libero,” rispose Vincenzo, per una volta serio. La musica di De André faceva da sottofondo alle sue parole. “Sono me stesso. È diverso. La libertà è una conseguenza, non un obiettivo.”
I ragazzi del paese gravitavano attorno a lui come falene attorno a una fiamma. Alcuni venivano una volta sola, bruciandosi le ali in un’unica notte di scoperte. Altri tornavano regolarmente, come pellegrini a un santuario pagano. Alcuni restavano amici, portando con sé il segreto di quelle notti come un talismano. Altri sparivano nella notte come se non fossero mai esistiti, tornando alle loro vite ordinate di fidanzate e aspettative familiari.
La casa aveva i suoi spazi sacri: il divano nell’angolo più buio del salotto, dove i corpi potevano sfiorarsi con la scusa dell’oscurità. La cucina, dove Carlo creava prelibatezze che nutrivano più dell’anima che del corpo. Il giardino, dove le stelle sembravano più luminose che in qualsiasi altro posto della valle.
“È come un gioco,” mi spiegò una volta Carlo, mentre guardavamo Vincenzo flirtare spudoratamente con un nuovo arrivato. Il ragazzo era chiaramente nervoso, ma i suoi occhi non riuscivano a staccarsi da Vincenzo. “Ma un gioco serio. Qui molti ragazzi scoprono chi sono veramente. Alcuni lo accettano, altri fuggono. Ma almeno hanno avuto la possibilità di sapere.”
Fu in questo contesto che Zeno espresse il suo desiderio di “sperimentare”. Stavamo ascoltando i Pink Floyd, “Wish You Were Here” che riempiva la stanza di malinconia. La sua voce tremava leggermente quando lo disse, ma i suoi occhi erano fissi su Vincenzo, come se io non esistessi. Come se non fossi mai esistito.
“Sei sicuro?” chiese Vincenzo, per una volta senza il suo solito sorriso malizioso. C’era una serietà nel suo tono che raramente gli avevo sentito.
“No,” rispose Zeno, girando il bicchiere tra le mani. La luce delle candele giocava sul suo viso, creando ombre che sembravano nascondere e rivelare allo stesso tempo. “Ma voglio provare lo stesso.”
Quella notte non dormii. Dalla mia stanza potevo sentire le voci, le risate, i silenzi. Il vinile che girava a vuoto sul piatto, il ticchettio dell’orologio che scandiva i minuti di quella che sembrava un’eternità. Era come assistere alla propria esecuzione attraverso una porta chiusa.
“Non è andata come pensavi, vero?” mi chiese Carlo il giorno dopo, trovandomi solo in cucina. Stava preparando il caffè, il gorgoglio della moka che riempiva il silenzio tra le sue parole.
“Cosa?”
“La libertà. Pensavi facesse meno male.”
La verità era che Val della Torre mi stava insegnando più di quanto volessi imparare. Sulla libertà, sul desiderio, su me stesso. Vincenzo e Carlo erano i miei insegnanti involontari in questa strana scuola notturna, dove le lezioni più importanti venivano impartite nel silenzio tra una canzone e l’altra.
Le notti si susseguivano, ognuna portando con sé nuove rivelazioni. Le bottiglie di vino si svuotavano, i dischi giravano, e la casa del serpente continuava a tessere il suo incantesimo.
“Sai qual è il vero segreto?” mi disse una sera Vincenzo, stranamente sobrio. Eravamo seduti sul balcone, le luci della valle che brillavano sotto di noi come stelle cadute sulla terra. “Non è fare quello che vuoi. È essere quello che sei. Anche quando fa paura.”
Le notti continuavano a scorrere, ognuna con la sua storia, i suoi segreti, le sue rivelazioni. Il calendario sulla parete della cucina segnava il passaggio del tempo, ma in quelle ore notturne il tempo sembrava perdere significato. Alcuni amori nascevano, fragili come farfalle appena uscite dal bozzolo. Altri morivano prima ancora di avere un nome. Altri ancora non arrivavano nemmeno a esistere veramente, rimanendo sospesi nel limbo delle possibilità non realizzate.
“Non tutti sono pronti per questo tipo di libertà,” disse Carlo l’ultima volta che lo vidi, mentre guardava Vincenzo che già stava incantando l’ennesimo ragazzo curioso. La musica dei Doors creava un’atmosfera quasi ipnotica, “Riders on the Storm” che sembrava particolarmente appropriata. “Ma tutti hanno il diritto di scoprire se lo sono.”
La casa del serpente, come la chiamavano alcuni in paese, continuava a vivere la sua vita doppia: rispettabile di giorno, rivoluzionaria di notte. Come nella canzone, era un luogo dove i segreti più profondi trovavano il loro spazio per esistere, dove le verità più nascoste potevano finalmente venire alla luce.
“E il serpente si snoda tra l’erba Nascondendo il suo veleno Ma anche la sua saggezza…”
Capitolo V: Il Mulino: Nascita di una Comunità
“Bisogna andare, fino in fondo in fondo a tuttp in fondo a noi…”
(La Giacca – Claudio Lolli, 1973)
Bisogna andare, fino in fondo, penso mentre giro la chiave nella serratura del portone di via Mulino vecchio. Il metallo freddo sotto le dita mi ricorda che questo è reale, non uno dei tanti sogni che ho fatto negli ultimi mesi. Sette stanze mi aspettano, un universo di possibilità racchiuso in duecento metri quadrati nel cuore di Torino.
“È enorme,” sussurra Girolamo, la voce che rimbomba nel corridoio vuoto. La sua eco rimbalza sulle pareti nude, creando un’eco che sembra il respiro della casa stessa.
Lo è. Come una balena spiaggiata nel cuore di Torino, l’appartamento si estende per quello che sembra un chilometro. I pavimenti in legno scricchiolano sotto i nostri passi, raccontando storie di chi ha camminato qui prima di noi. Le finestre alte lasciano entrare una luce obliqua che taglia l’aria polverosa in diagonali dorate.
La prima stanza diventa subito il cuore pulsante della casa: il tavolo da ping-pong, comprato in un magazzino dell’usato e trasportato faticosamente su per le scale, è anche tavolo da pranzo, cattedra per lezioni improvvisate, altare per le pizze di Girolamo. Le sue dimensioni imponenti dominano lo spazio, ma in qualche modo lo rendono più intimo.
“La pasta deve riposare,” spiega Girolamo con la serietà di un sacerdote, le mani bianche di farina mentre lavora l’impasto. “Come i pensieri.” La cucina diventa il suo dominio, un laboratorio di alchimia culinaria dove trasforma ingredienti semplici in festini improvvisati.
La seconda stanza, lunga e stretta come un vagone ferroviario, vede nascere i nostri cineforum. Il proiettore, prestato da un amico di un amico, trasforma la parete bianca in uno schermo dove proiettiamo i nostri sogni, le nostre paure, le nostre speranze. Kubrick si alterna a Pasolini, Fellini a Bergman, in un viaggio attraverso il cinema che è anche un viaggio dentro noi stessi.
“Benvenuti nel mondo dell’AIDS,” scriviamo con la bomboletta sulla parete dell’ingresso, le lettere nere che colano come lacrime di inchiostro. È una provocazione, un esorcismo, una dichiarazione di guerra. Nel 1985, quella scritta significava molto più di quanto le parole potessero dire. Era una sfida al silenzio, alla paura, all’indifferenza.
Le notti al Mulino hanno un ritmo tutto loro. I corpi si muovono diversamente nell’oscurità, più liberi, più veri. La musica dei Talking Heads si mescola alle discussioni accese sulla politica, sulla filosofia, sull’amore. Non è raro che le amicizie sconfinino in territori più intimi, che le identità si facciano fluide come il vino che condividiamo.
“Il castello di Fenestrelle ci aspetta,” annuncio un giorno, spiegando una mappa sulla superficie consumata del tavolo da ping-pong. “Organizziamo una campagna epica.” I dadi rotolano sul legno, creando il sottofondo sonoro delle nostre avventure immaginarie.
Le serate si susseguono, ognuna con la sua magia particolare. Partite a Dungeons & Dragons che durano fino all’alba, con Girolamo nel ruolo del master che crea mondi interi con la sua voce profonda. Sessioni di Civilization innaffiati da casse di birra “dai che questa volta finiamo il gioco per davvero“. Discussioni infinite sulla politica, sull’amore, sulla vita.
I genitori delle nostre amiche sono preoccupati. Le voci corrono nel quartiere: una comune di drogati, dicono. Un covo di sovversivi. Un posto dove succedono cose innominabili.
“Dovremmo tranquillizzarli,” suggerisce qualcuno durante una riunione improvvisata in cucina.
“O magari dovremmo preoccuparli di più,” ride Rè, stravaccato sul divano recuperato da un marciapiede, la sua sigaretta che disegna arabeschi di fumo nell’aria. “Almeno avrebbero una ragione vera.”
Le prime esperienze sessuali di molti avvengono qui, in questo spazio sicuro dove il giudizio è sospeso. Tra queste mura, l’amore trova spazio per esprimersi in tutte le sue forme. Non ci sono giudizi, solo una tacita comprensione. La mia giacca da disgraziato, quella che porto sempre con me come un’armatura, diventa qui un mantello regale, un simbolo di appartenenza a questa tribù di sognatori e ribelli.
Qui incontro Enzo. Non è un incontro da colpo di fulmine, non è una storia da romanzo rosa. È reale, tangibile come il pane che lui impara a fare, esperimentando con lieviti e farine diverse. È possibile, come le mattine in cui ci svegliamo avvolti nel profumo di caffè e possibilità. È nostro, come questo spazio che stiamo imparando ad abitare.
Le uscite si moltiplicano: bocce viventi al parco, un gioco inventato che mescola teatro e sport in un caos organizzato. Biciclettate alla Mandria, dove impariamo nuovi significati, nuove libertà. Partite a D&D al castello di Fenestrelle, dove la storia e l’immaginazione si fondono in nuove narrative.
Il Mulino diventa più di un appartamento: è un esperimento sociale, un rifugio, una dichiarazione d’indipendenza. È un posto dove le regole vengono riscritte ogni giorno, dove i confini tra arte e vita, tra politica e poesia, tra amicizia e amore diventano porosi, permeabili.
“Abbiamo creato qualcosa di unico,” dice Girolamo una sera, guardando la città dalle nostre finestre. Le luci di Torino brillano sotto di noi come una costellazione terrestre.
“Abbiamo creato una casa,” rispondo. Ma è più di questo: abbiamo creato uno spazio dove essere autenticamente noi stessi, dove ogni forma d’amore trova il suo posto, dove la diversità non è tollerata ma celebrata.
In queste sette stanze, abbiamo trovato non solo un tetto, ma un modo di essere. Non solo un indirizzo, ma una direzione. Non solo una casa, ma una casa del cuore. Un posto dove le nostre storie possono intrecciarsi e crescere, come le piante che Girolamo coltiva sul balcone.
E come cantava Lolli, continuiamo ad andare avanti, anche se non siamo in tanti. Perché a volte non è importante quanti siamo, ma quanto profondamente crediamo in quello che stiamo costruendo.
“E anche se non siamo in tanti Bisogna andare avanti Perché la strada è ancora lunga da fare…”
Capitolo VI: Rifugi e Rivoluzioni: Storie dal Mulino
“Quello che non ho è una camicia bianca, quello che non ho è un segreto in banca, quello che non ho sono le tue pistole per conquistate il mondo non mi serve…”
(Quello che non ho – Fabrizio De André, 1981)
Il campanello del Mulino suonò ben oltre la mezzanotte, il suo trillo acuto che tagliava il silenzio come un coltello. Era una di quelle notti d’autunno in cui la nebbia avvolgeva Torino come una coperta umida, rendendo tutto più sfocato, più misterioso. Le strade deserte sembravano appartenere a un’altra città, una città di sogni e possibilità.
“C’è un ragazzo giù,” disse Girolamo, affacciandosi alla mia stanza. Il bagliore del lampione filtrava attraverso la finestra, creando ombre danzanti sul suo viso preoccupato. “Dice che gli hanno parlato di questo posto.”
Dal citofono gracchiante, una voce giovane chiese rifugio. C’era qualcosa di spezzato in quella voce, una fragilità che superava il disturbo dell’interfono. Nel dubbio, al Mulino, la risposta era sempre sì.
Andrea – così disse di chiamarsi – aveva uno zaino logoro e occhi che avevano visto molto. Sembrava giovane, forse diciassette anni, ma c’era qualcosa nel suo modo di muoversi che parlava di una stanchezza più antica della sua età. I suoi vestiti erano puliti ma spiegazzati, come se li avesse indossati per troppi giorni di seguito.
“Posso… posso restare solo qualche giorno?” La sua voce tremava leggermente mentre si guardava intorno nella cucina illuminata. “A casa la situazione è… complicata.” Le ultime parole uscirono come un sussurro, cariche di un peso che sembrava troppo grande per le sue spalle sottili.
Non facemmo domande. Al Mulino avevamo imparato che le storie emergono quando sono pronte per essere raccontate, non quando vengono sollecitate. Lo sistemammo nella stanza degli ospiti, quella con il vecchio divano letto che scricchiolava ad ogni movimento ma era sorprendentemente comodo.
Girolamo, con quell’istinto protettivo che lo caratterizzava, si mise subito ai fornelli. “La pizza guarisce tutto,” dichiarò, iniziando a impastare con movimenti precisi e rassicuranti. Il profumo di lievito e basilico riempì presto la cucina, creando un’atmosfera di domesticità che sembrò far rilassare leggermente le spalle tese di Andrea.
Rè, che quella sera era passato per una delle sue visite improvvisate, si lanciò in una delle sue storie assurde, raccontando di quando aveva convinto un intero ufficio della DEP che il computer centrale fosse posseduto dallo spirito di Alan Turing. La sua voce allegra e le sue battute riuscirono a strappare i primi, timidi sorrisi al nostro ospite.
La sua storia emerse durante una serata di Dungeons & Dragons, qualche giorno dopo. Il tavolo da ping-pong era coperto di mappe disegnate a mano, dadi colorati e miniature non dipinte. Il suo personaggio, un ranger solitario, stava raccontando il suo passato al gruppo.
“A casa mio padre ha trovato alcune lettere,” disse mentre lanciava i dadi, come se parlasse ancora del suo personaggio. Il rumore dei dadi che rotolavano sul tavolo sembrava scandire il ritmo delle sue parole. “Lettere d’amore. Da un altro ragazzo.” La voce gli si incrinò leggermente. “Non è stato… comprensivo.”
Il gioco si interruppe naturalmente. Enzo, che era presente quella sera, si alzò silenziosamente e tornò poco dopo con una bottiglia di vino rosso. Non uno qualunque, ma quello buono che tenevamo per le occasioni speciali.
“La prima volta che mio padre mi ha visto baciare un ragazzo,” disse versando il vino nei bicchieri con gesti misurati, “ha smesso di parlarmi per un anno. Ora viene a cena da noi ogni domenica e adora il mio tiramisù.”
Andrea alzò gli occhi, sorpreso. “Da… voi?”
“Sì, da me e dal mio compagno,” risposi, prendendo la mano di Enzo. Le nostre dita si intrecciarono con la familiarità di un gesto ripetuto mille volte. “Le cose cambiano. Non sempre, non facilmente, ma cambiano.”
Quella notte lo sentimmo piangere nella sua stanza. Ma non erano più lacrime di disperazione – erano lacrime di sollievo, di riconoscimento, di possibilità. Il suono attutito dei suoi singhiozzi si mescolava alla musica soft che qualcuno aveva messo – credo fosse Jeff Buckley.
Andrea rimase con noi tre settimane. Lo vedemmo trasformarsi da un ragazzo spaventato in qualcuno che iniziava a camminare più dritto, a sorridere più spesso. Le nostre routine quotidiane – le colazioni con il pane appena sfornato di Enzo, le serate di giochi, le discussioni infinite sulla politica e sull’arte – diventarono il suo nuovo normale.
Durante il giorno studiava, recuperando le lezioni perse. La sera partecipava alle nostre attività, prima timidamente, poi con crescente entusiasmo. Lo scoprimmo appassionato di fotografia: aveva una vecchia Nikon che maneggiava con cura reverenziale.
Quello che non ho è forse il tempo che ho perduto, pensavo guardandolo rinascere giorno dopo giorno. Ma forse il tempo non è mai veramente perduto quando serve a qualcuno per trovare se stesso.
“Come fate?” ci chiese una sera, mentre eravamo tutti riuniti in cucina. La domanda uscì improvvisa, sincera. “A essere così… voi stessi?”
“Non è che siamo sempre stati così,” rispose Rè, per una volta serio. La sua solita irriverenza lasciò spazio a una saggezza inaspettata. “È che abbiamo trovato persone che ci hanno permesso di diventarlo.”
Quando finalmente si sentì pronto a tornare a casa, era una persona diversa. Non perché il Mulino lo avesse cambiato, ma perché gli aveva mostrato che esistevano altri modi di essere, di vivere, di amare. Gli avevamo dato non solo un rifugio fisico, ma uno spazio mentale dove poter immaginare un futuro diverso.
“Grazie,” disse sulla porta, lo zaino ora più leggero sulle sue spalle. “Non solo per il letto. Per… tutto questo.”
E “tutto questo” era esattamente ciò che il Mulino rappresentava: uno spazio dove le persone potevano trovare non solo rifugio, ma anche se stesse. Dove le porte erano sempre aperte non solo per entrare, ma anche per uscire quando era il momento – e tornare, se ce n’era bisogno.
In seguito, altri come Andrea trovarono la strada verso il Mulino. Alcuni restavano una notte, altri settimane. Ognuno portava la sua storia, i suoi demoni, le sue speranze. Il Mulino li accoglieva tutti, come un faro nella notte per navi alla deriva.
Come cantava De André, quello che non abbiamo sono forse le certezze, i conti in banca, le camicie bianche. Ma quello che abbiamo è più prezioso: la libertà di essere chi siamo, e il coraggio di permettere agli altri di fare lo stesso.
Capitolo VII: Monica e Sandra: Testimoni di Viaggio
“Firenze lo sai non è servita a cambiarla la cosa che ha amato di più è stata l’aria”
(Firenze – Ivan Graziani, 1980)
Ci sono persone che entrano nella tua vita non come protagonisti, ma come testimoni. Monica e Sandra erano così: croniste, osservatrici, custodi di una memoria collettiva che stavamo creando senza saperlo. Dal treno per Belfast fino alle notti del Mulino, il loro sguardo attento ha registrato ogni trasformazione, ogni svolta del nostro percorso.
Le loro Nikon erano estensioni naturali dei loro corpi, occhi meccanici sempre pronti a catturare l’attimo decisivo. Non erano semplici fotoreporter; erano antropologhe visive di una tribù urbana in continua evoluzione. La camera oscura che avevano allestito in uno sgabuzzino del Mulino era il loro sancta sanctorum, dove le immagini emergevano lentamente nell’oscurità rossastra come ricordi che prendono forma.
“Venite con noi?” chiedevano, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E forse lo era. Da Belfast in poi, le nostre strade si erano intrecciate come fili di un arazzo complicato. Le loro spedizioni ci portavano in luoghi che non avremmo mai immaginato di visitare: centri sociali occupati, comunità alternative nascoste tra le montagne, manifestazioni che segnavano il ritmo di quegli anni inquieti.
Una sera, mentre sviluppavano le foto dell’ultima manifestazione antinucleare, Sandra si fermò davanti a un’immagine particolare. “Guarda questo,” disse a Monica, indicando un dettaglio. Era la foto di un poliziotto che aiutava un manifestante a rialzarsi. “A volte l’umanità emerge nei momenti più inaspettati.”
Le loro macchine fotografiche catturavano più dei semplici momenti. Catturavano transizioni, metamorfosi, rivoluzioni personali. Dalla Palestina all’Irlanda, dai quartieri di Torino alle montagne della Val di Susa, il loro obiettivo era sempre puntato sulla verità nascosta dietro le apparenze.
“È come essere archeologi del presente,” spiegava Monica mentre appendeva le sue ultime stampe ad asciugare. “Scaviamo sotto la superficie per trovare ciò che la gente non vuole vedere.”
Una sera, mentre sedevamo sul balcone del Mulino, l’aria ancora calda di un settembre che non voleva finire, Monica mi guardò con quella sua intensità caratteristica. “Sai cosa mi piace di te?” disse, accendendo una delle sue immancabili Gauloises. “Non fingi mai.”
“Non ne ho più la forza,” risposi, guardando le luci della città che si accendevano una dopo l’altra.
Sandra sorrise. “È per questo che siamo qui.” Le sue mani giocavano con la cinghia della macchina fotografica, un gesto abituale che era diventato quasi un tic nervoso. “Per documentare chi ha il coraggio di essere vero.”
Le loro storie si mescolavano con le nostre. Il Mulino diventava una tappa nei loro viaggi, un porto sicuro nelle loro tempeste. Tornavano sempre cariche di nuove storie, di nuove fotografie, di nuove comprensioni del mondo. I loro racconti alimentavano le nostre serate, trasformando la cucina in un salotto internazionale dove le storie dei curdi si intrecciavano con quelle dei minatori inglesi, dove le lotte palestinesi risuonavano con quelle delle femministe italiane.
“È come una famiglia,” disse Sandra una sera, mentre appendeva le sue ultime foto alla parete. L’immagine mostrava un gruppo di donne palestinesi che raccoglievano olive sotto lo sguardo dei soldati israeliani. “Una famiglia che si sceglie.”
Le loro fotografie tappezzavano una parete intera del Mulino: occhi di bambini palestinesi che guardavano dritto nell’obiettivo, murales dell’Irlanda del Nord che raccontavano storie di resistenza, manifestazioni a Berlino dove Est e Ovest iniziavano a mescolarsi. Era il nostro modo di tenere il mondo dentro casa, di ricordarci che le nostre piccole rivoluzioni personali erano parte di qualcosa di più grande.
“Il mondo è più piccolo di quanto pensiamo,” diceva spesso Monica mostrando i suoi scatti durante le proiezioni che organizzavamo regolarmente. Le diapositive illuminavano il muro bianco della sala comune, trasformando una semplice parete in una finestra sul mondo. “E più grande di quanto osiamo sperare.”
Non erano solo osservatrici passive. La loro presenza cambiava le dinamiche, portava nuove prospettive, nuove possibilità. Attraverso i loro occhi, imparavamo a vedere noi stessi in modo diverso. Le loro foto del Mulino e dei suoi abitanti raccontavano una storia che noi stessi facevamo fatica a riconoscere: una storia di coraggio quotidiano, di piccole ribellioni, di amore nelle sue infinite forme.
“Non state solo vivendo una storia,” ci disse una volta Sandra, mentre mostrava una serie di foto che aveva scattato durante una delle nostre cene comunitarie. Le immagini mostravano momenti di intimità spontanea: mani che si sfioravano passando il pane, sguardi complici sopra i bicchieri di vino, abbracci che parlavano di appartenenza. “State creando un modello. Un modo diverso di essere comunità.”
Il loro archivio fotografico diventò la memoria visiva del Mulino. Ogni immagine era accompagnata da note dettagliate: date, nomi, contesti. Era un lavoro di documentazione meticoloso che trasformava i momenti effimeri in storia documentata.
“Quando tutto questo sarà finito,” diceva Monica, “queste foto racconteranno una storia che altrimenti nessuno crederebbe.” C’era una dolce malinconia nella sua voce, come se già sapesse che stavamo vivendo qualcosa di irripetibile.
E mentre le guardo ripartire, ancora una volta dirette verso nuove avventure, i loro zaini pesanti di macchine fotografiche e pellicole non sviluppate, penso che forse è questo l’amore vero. Non quello che ti lega. Non quello che ti imprigiona. Ma quello che ti dà le ali per volare.
Come nella canzone di Graziani, anche noi eravamo artisti e studenti, persi e ritrovati in una città che diventava casa attraverso gli occhi di chi sapeva guardarla. Le nostre storie, immortalate nei loro scatti, diventavano parte di un racconto più grande, un affresco contemporaneo fatto di luce e ombre, di amori e lotte, di sogni e realtà.
“E non c’è più nessuno che mi parli ancora un po’ di lei, ancora un po’ di lei...“
Capitolo VIII: Le Serate di LL: Rituale e Condivisione
“Cerco un centro di gravità permanente Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente Avrei bisogno di…”
(Centro di gravità permanente – Franco Battiato, 1981)
Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente, pensavo mentre l’ascensore saliva verso l’appartamento di LL. Era uno di quei rari ascensori che entravano direttamente in casa, come un portale magico verso un’altra dimensione. Il meccanismo antiquato vibrava leggermente, producendo un ronzio ipnotico che sembrava preparare gli ospiti a ciò che li attendeva.
“La luna è piena,” annunciava LL aprendo la porta, il suo volto illuminato da un sorriso sereno che sembrava riflettere la luce dell’astro notturno. Era il nostro richiamo, il nostro mantra quindicinale. Le sue parole erano sempre le stesse, ma ogni volta sembravano cariche di un significato nuovo.
La sua soffitta era un mondo a parte, sospeso tra cielo e terra. Le travi di legno a vista creavano ombre suggestive, e le finestre inclinate sul tetto sembravano cornici per il cielo notturno. Non c’erano gli elementi tipici che ci si aspetterebbe in un luogo di rituali: niente candele profumate, niente incensi esotici, niente cristalli o amuleti. Solo persone sedute in cerchio che parlavano, ascoltavano, condividevano.
Il digiuno non era una privazione, come LL ci aveva insegnato fin dall’inizio. Era una scelta consapevole di solidarietà, un modo per ricordare che da qualche parte, in quel momento, qualcuno stava digiunando non per scelta ma per necessità.
“I soldi della cena vanno al centro di accoglienza,” spiegava LL ogni volta che qualcuno nuovo si univa al gruppo. Le sue mani gesticolavano gentilmente mentre parlava. “Ma quello che resta qui, quello che condividiamo in queste serate, vale molto di più.”
Le riunioni si susseguivano, luna dopo luna. C’era una matematica precisa in questi incontri: il ciclo lunare scandiva il tempo in modo diverso dal calendario solare, creando un ritmo alternativo che si sovrapponeva alla frenesia della vita quotidiana. Non era magia, non era mistero – era matematica dell’anima, come diceva LL: meno tieni per te, più c’è per tutti.
“I genitori di Anna sono preoccupati,” disse qualcuno una sera. Anna, una ragazza dai capelli rossi che frequentava il liceo classico, si strinse nelle spalle. “Pensano che siamo una setta.”
“Lo sarebbero meno se capissero,” rispose LL con il suo sorriso sereno, gli occhi che brillavano di divertimento dietro gli occhiali tondi. “Qui non c’è niente di misterioso. Solo persone che scelgono di dare invece di prendere.”
Durante i digiuni si parlava di tutto, di cose stravanti ed allegre, e perfino storie d’amore e di passione.
LL ascoltava tutto con la stessa serenità, come se ogni storia d’amore fosse ugualmente sacra, ogni dolore ugualmente degno di rispetto. Non offriva mai giudizi, solo una presenza attenta e accogliente che sembrava dire: “Sei al sicuro qui. Sei ascoltato. Sei visto.”
“Non è un rituale,” spiegava a chi chiedeva della natura di questi incontri. Le sue parole erano sempre misurate, precise. “È un esercizio di presenza.”
Dal terrazzo della soffitta, la città si stendeva sotto di noi come un tappeto di luci. I rumori salivano attutiti, creando un sottofondo urbano che si mescolava alle nostre voci. La città sotto di noi continuava la sua vita frenetica, ma qui, in questa soffitta, il tempo aveva un altro ritmo. Un ritmo scandito dalla luna, dalle parole condivise, dal silenzio che univa più delle parole.
C’erano serate in cui quasi non si parlava. Il silenzio diventava una presenza tangibile, un tessuto prezioso che ci avvolgeva tutti. Altre volte, le discussioni si accendevano, appassionate ma mai aggressive. Si parlava di politica, di spiritualità, di arte, di amore. Ogni argomento era benvenuto, ogni prospettiva considerata.
“Sai qual è il vero centro di gravità?” mi chiese una volta LL, mentre guardavamo la luna piena attraverso il lucernario. La domanda sembrava casuale, ma con LL niente lo era mai veramente. “Non è un punto fisso. È la capacità di danzare con il cambiamento.”
Le sue parole mi ricordarono la canzone di Battiato, quella ricerca infinita di un centro che forse non esisteva. O forse esisteva proprio nel movimento, nel flusso costante del dare e del ricevere, nell’eterno ritorno delle nostre serate lunari.
Una sera, una giovane coppia portò il loro bambino appena nato. LL lo prese in braccio con una tenerezza infinita, e per un momento la soffitta sembrò riempirsi di una luce diversa. “Vedete?” disse, guardando il piccolo che dormiva sereno. “Questo è il vero centro di gravità. La vita che continua, che si rinnova.”
Le stagioni passavano, ma le serate di LL mantenevano la loro magia particolare. Persone entravano ed uscivano, ma il cerchio non si spezzava mai veramente. Era come se la casa fosse diventata un punto fermo in un mondo in continuo movimento, un faro nella notte per chi cercava non risposte, ma il coraggio di fare le domande giuste.
E mentre la luna illuminava la città attraverso le finestre della casa, capivo che forse era proprio questo il punto: non cercare un centro immobile, ma imparare a muoversi in equilibrio tra dare e ricevere, tra essere e divenire. La vera stabilità non stava nella rigidità, ma nella danza continua tra ciò che eravamo e ciò che stavamo diventando.
Come nella canzone di Battiato, cercavamo tutti un centro di gravità permanente. Ma forse la vera stabilità stava proprio nel movimento, nel flusso costante del dare e del ricevere, nell’eterno ritorno delle nostre serate lunari.
Capitolo IX: Zeno e il Viaggio in Marocco
“Ti hanno vista bere a una fontana che non ero io.…”
(Disperato erotico stomp – Lucio Dalla, 1977)
Le notti a Marrakesh erano soffocanti, non solo per il caldo. Il mio raffreddore trasformava ogni respiro in una tortura, ogni starnuto in un’accusa silenziosa. L’aria pesante della medina, carica di spezie e fumo di narghilè, sembrava solidificarsi intorno a noi come una gabbia invisibile.
“Ti farà bene,” aveva detto Zeno quando aveva proposto il viaggio, settimane prima al Mulino. I suoi occhi brillavano di quell’entusiasmo contagioso che lo rendeva irresistibile. “Viaggiare apre la mente.”
Ma non era la mente che volevo aprire. Era questo nodo al petto che volevo sciogliere, questa sensazione crescente che stavamo recitando una parte in una storia che non era più la nostra. Il Marocco doveva essere la nostra grande avventura, il viaggio che avrebbe dato un senso a tutto. Invece, stava diventando il palcoscenico della nostra fine.
Le giornate si susseguivano in un caleidoscopio di colori e sensazioni. I vicoli della medina si aprivano davanti a noi come un labirinto infinito, ogni svolta prometteva meraviglie o pericoli. I venditori ci chiamavano dai loro negozi, le loro voci si mescolavano al richiamo del muezzin, creando una sinfonia aliena e familiare allo stesso tempo.
“Potresti almeno cercare di controllarti,” sbottò Zeno nella medina, mentre mi soffiavo rumorosamente il naso. La sua voce tradiva più fastidio che preoccupazione. “È insopportabile.”
Non erano gli starnuti ad essere insopportabili, lo capivo ora con dolorosa chiarezza. Era la verità che stava emergendo tra noi, come il sole impietoso del deserto che non lascia ombre dove nascondersi. Era l’evidenza che stavamo cercando di essere qualcosa che non eravamo, di forzare una storia che aveva già trovato la sua naturale conclusione.
Il mercato ci avvolgeva nei suoi odori, nei suoi colori. Bancarelle di spezie creavano montagne multicolori che sembravano uscite da un racconto delle mille e una notte. Zeno si muoveva tra i venditori come un pesce nell’acqua, contrattando in un francese improvvisato, sorridendo alle persone sbagliate, mentendo con una facilità che mi spaventava.
“È necessario,” si giustificava quando glielo facevo notare. I suoi occhi evitavano i miei, fissando un punto indefinito oltre le mie spalle. “Qui funziona così.”
Ma non era il “qui” il problema. Era il “così” – questo continuo adattarsi, questo perpetuo mascherarsi. Io che avevo sempre cercato in lui l’autenticità, mi trovavo ora di fronte a un maestro del camouflage, un artista della dissimulazione.
Una sera, in un caffè della piazza Jemaa el-Fnaa, mentre i serpentari e i cantastorie creavano il loro spettacolo quotidiano, osservai Zeno flirtare con un giovane venditore di tappeti. Non era gelosia quello che provavo, ma una sorta di tristezza rassegnata. Era come guardare un film che avevo già visto troppe volte.
“A volte bisogna mentire per sopravvivere,” si giustificò una sera, dopo l’ennesima bugia detta a un gruppo di turisti italiani che avevamo incontrato. Eravamo seduti sulla terrazza del nostro riad, il tramonto tingeva le mura della città di un rosso intenso.
“Come mentire sulla propria natura?” Le parole mi sfuggirono prima che potessi fermarle. Il silenzio che seguì fu pesante come il caldo africano.
Si voltò di scatto, e per un momento vidi paura nei suoi occhi. “Cosa vorresti dire?”
Un gatto randagio attraversò la terrazza, silenzioso come un fantasma. Da qualche parte, un muezzin iniziò a cantare la preghiera della sera. Il mondo continuava la sua danza eterna, indifferente ai nostri piccoli drammi personali.
“Ho incontrato i limiti dell’amicizia,” gli dissi l’ultima sera a Marrakesh. Eravamo seduti in un caffè della medina, il tè alla menta ormai freddo davanti a noi. Le parole uscirono con una calma che mi sorprese.
Mi guardò con quegli occhi che un tempo mi facevano tremare. Ora vedevo solo stanchezza, e forse un po’ di sollievo. Il Marocco ci aveva mostrato chi eravamo veramente. Lui, sempre in fuga da se stesso. Io, sempre in cerca di una verità che forse non esisteva.
Il viaggio di ritorno fu un esercizio di silenzio. L’aereo attraversava il Mediterraneo, lasciandosi alle spalle le luci di Marrakesh. Sotto di noi, il mare era nero come inchiostro, punteggiato dai riflessi della luna.
“Ho perso un amico,” dissi a Girolamo quando tornai al Mulino. Era notte fonda, ma lui era ancora sveglio, come se mi avesse aspettato. “Ma forse ho trovato me stesso.”
La cucina del Mulino non era mai sembrata così accogliente. L’odore familiare del caffè, il ronzio del frigorifero, persino le crepe nel pavimento – tutto parlava di casa, di verità, di autenticità.
Come nella canzone di Dalla, avevo vissuto il mio disperato erotico stomp, ma alla fine avevo imparato che certe disperazioni sono necessarie per ritrovare la strada di casa. Che bisogna perdersi nel deserto per capire dove si vuole veramente andare.
Il Marocco rimase con me come un sogno febbricitante, un caleidoscopio di immagini e sensazioni: il profumo delle spezie nella medina, il suono ipnotico dei flauti dei serpentari, il sapore amaro del tè alla menta. Ma soprattutto, rimase come la memoria del momento in cui avevo finalmente smesso di mentire a me stesso.
Capitolo X: Spazi
“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.…”
(La cura – Franco Battiato, 1996)
Prima di Enzo, ogni relazione era stata segnata da un senso di urgenza e incompletezza. Con Zeno era stata una danza frenetica di attrazione e negazione. A Val della Torre, una ribellione contro ogni convenzione. Ma il Mulino aveva cambiato tutto questo, trasformando il modo in cui abitavamo gli spazi e ci relazionavamo gli uni con gli altri.
Le sette stanze erano diventate una mappa delle nostre trasformazioni, ogni ambiente con la sua personalità e il suo significato. Il modo in cui le persone si muovevano in questi spazi raccontava storie che le parole non potevano esprimere.
“È come se le pareti respirassero con noi,” disse una sera Girolamo, osservando il flusso di persone che attraversava gli spazi comuni. C’era una verità profonda in quelle parole: il Mulino era diventato un organismo vivente, che si adattava e cresceva con noi.
La cucina era il regno di Enzo, dove il suo corpo si muoveva con la pazienza del lievito madre che nutriva ogni giorno. Le sue mani, forti abbastanza da impastare chili di farina, sapevano essere incredibilmente gentili nel gesto quotidiano di preparare il caffè del mattino.
“Il corpo ha una sua saggezza,” mi disse una sera, mentre eravamo seduti sulla terrazza a guardare le stelle. “Sa cosa vuole, sa dove andare. Dobbiamo solo imparare ad ascoltarlo.”
Nella sala comune qualcuno leggeva sdraiato sul divano, qualcun altro giocava a D&D seduto per terra. Gli spazi si riempivano e si svuotavano seguendo un ritmo naturale, come il respiro di un essere vivente.
“Non è solo una questione fisica,” spiegò una volta Rè a un nuovo arrivato. “È un modo di esistere nello spazio. Di rivendicare il diritto di essere.”
Il Mulino stesso sembrava trasformarsi nelle nostre notti insieme.
“È come se ogni stanza avesse la sua personalità,” osservò Sandra durante una delle sue visite, la macchina fotografica che catturava momenti di vita quotidiana. “E ogni personalità permette un tipo diverso di connessione.”
Non era l’esplosione di passione che avevo conosciuto con Zeno, né la ribellione di Val della Torre. Era qualcosa di più sostanziale – come il pane che Enzo sfornava ogni mattina: semplice, nutriente, essenziale. Era un modo nuovo di abitare non solo lo spazio fisico, ma anche quello emotivo.
Le serate al Mulino avevano un loro ritmo particolare, creando geometrie sempre nuove. La musica dei Talking Heads o dei Joy Division faceva da sottofondo a queste coreografie spontanee di vita quotidiana.
“Ogni spazio racconta una storia,” disse Enzo una sera, mentre sistemava la cucina dopo una delle nostre cene comunitarie. “È come un libro che scriviamo insieme, pagina dopo pagina.”
Il Mulino era diventato più di un semplice appartamento: era un manifesto vivente di come gli spazi potessero essere reinventati. Era un esperimento continuo di convivenza e rispetto reciproco.
Le finestre alte lasciavano entrare la luce in modi sempre diversi durante il giorno, creando giochi d’ombre che trasformavano continuamente gli ambienti.
“A volte penso che siamo come archeologi,” disse Monica una sera, mentre fotografava le ombre delle persone proiettate sul muro. “Scaviamo negli strati di significato di questi spazi, scoprendo sempre qualcosa di nuovo.”
E forse era proprio questo il punto: imparare ad abitare non solo lo spazio fisico, ma anche quello emotivo. Imparare a muoversi con rispetto e consapevolezza, sia nelle stanze del Mulino che nelle vite degli altri.
E forse era questa la vera cura di cui parlava Battiato: non proteggere qualcuno dal mondo, ma creare uno spazio dove poter essere pienamente se stessi, corpo e anima. Un luogo dove la vulnerabilità non era una debolezza, ma una forza.
“E guarirai da tutte le malattie Perché sei un essere speciale Ed io, avrò cura di te…”
Capitolo XI: Le Carte della Vita
“C’è una donna che semina il grano
Volta la carta si vede il villano
Il villano che zappa la terra
Volta la carta viene la guerra…”
(Volta la carta – Fabrizio de Andre’, 1978)
I tarocchi arrivarono nella mia vita non come strumento di divinazione, ma come linguaggio. Fu Girolamo a portarli al Mulino, in una scatola di legno consumato che era appartenuto a sua nonna. Le carte erano vecchie, i bordi consumati da migliaia di mani che le avevano toccate prima di noi. Un alfabeto di simboli che permetteva di dare voce a ciò che le parole non riuscivano a esprimere.
“Non è solo divinazione,” spiegavo, mentre disponevo gli Arcani Maggiori in un cerchio sul pavimento del Mulino. La luce del tramonto filtrava attraverso le finestre alte, creando ombre che danzavano sulle figure misteriose. “È un modo di leggere il presente.”
Il cerchio di carte sul pavimento di legno era diventato un rituale serale. Le persone si sedevano intorno, alcune scettiche, altre curiose, tutte in qualche modo attratte da quei disegni antichi che sembravano parlare direttamente all’inconscio.
“Gli Arcani Maggiori sono come stazioni di una metropolitana,” diceva Zeno, seduto a gambe incrociate sul pavimento. Il suo cinismo abituale si ammorbidiva davanti alle carte. “Ti portano dove devi andare, non dove vuoi andare.”
La Torre, il Matto, gli Amanti – ogni carta raccontava una storia diversa, ogni combinazione apriva nuove possibilità di interpretazione. Le usavo per fare nuove conoscenze, per rompere il ghiaccio, per dare voce a ciò che non sapevo dire. Era sorprendente vedere come le persone si aprivano davanti a questi archetipi, come se le carte fornissero uno spazio sicuro per esplorare le proprie verità.
“Dimmi cosa vedi,” chiesi a una ragazza che aveva gli occhi tristi come una Madonna bizantina. Era arrivata al Mulino seguendo una catena di amicizie, portando con sé un dolore che non riusciva a nominare.
La carta mostrava la Luna. Lei la guardò e iniziò a piangere. Non erano lacrime di tristezza, ma di riconoscimento. Come se finalmente qualcuno avesse dato forma ai suoi sentimenti più profondi.
Una sera, un ragazzo mi portò il suo cuore spezzato. Le carte parlavano di tradimento, di dolore, di rinascita. La Torre e la Morte si susseguivano in un racconto di distruzione e rinnovamento.
“Ma guarirò?” chiese, la voce che tremava leggermente.
“Le carte non predicono il futuro,” risposi, guardando la sequenza che si era formata davanti a noi. “Raccontano il presente. Il futuro lo scrivi tu.”
Il mazzo divenne parte integrante della vita del Mulino. Durante le cene comunitarie, spesso qualcuno chiedeva una lettura. Le carte si mescolavano al profumo del cibo di Enzo, alle risate, alle conversazioni. Diventarono un altro modo di condividere, di connettersi.
“Leggi le carte anche per te stesso?” mi chiese un giorno Enzo, mentre mi osservava fare una lettura per Monica.
“No,” risposi, evitando il suo sguardo. “Ho troppa paura di quello che potrebbero dirmi.”
La sua risposta fu un sorriso comprensivo. Sapeva, come sempre, vedere oltre le mie parole.
Una notte, dopo l’ennesima lettura, resto solo con le carte. Le dispongo in un cerchio, come una costellazione personale. La Luna, l’Eremita, il Carro – ogni arcano sembrava parlare di un aspetto diverso del mio viaggio.
Il Matto, con il suo passo sicuro verso il precipizio, mi ricordava il nostro arrivo al Mulino. La Torre parlava delle strutture che avevamo dovuto abbattere per crescere. Gli Amanti… gli Amanti parlavano di tutte le forme d’amore che avevamo imparato a riconoscere e accettare.
“Sai quale è la carta più importante?” chiesi poi a Enzo, quando mi raggiunse con due tazze di tè.
“Quale?”
“Il bordo bianco intorno alle figure. Lo spazio dove tutto è possibile.” Mi guardò con quella sua intensità che ancora mi faceva tremare il cuore. “È come il Mulino: uno spazio bianco dove possiamo disegnare la nostra storia.”
Le letture dei tarocchi divennero un altro modo di raccontare la storia del Mulino. Ogni carta pescata era un capitolo, ogni combinazione una nuova prospettiva sulla nostra vita comune. Non era superstizione, ma poesia: un modo di dare forma al caos delle emozioni, di trovare patterns nel apparente casualità dell’esistenza.
“È come scrivere una storia insieme,” disse una sera Sandra, fotografando una disposizione particolarmente significativa delle carte. “Ogni lettura è un nuovo capitolo, ogni interpretazione una possibile direzione.”
E questa era la vera magia dei tarocchi: non le risposte che davano, ma le domande che ci costringevano a farci. Non le predizioni del futuro, ma la comprensione più profonda del presente. Come uno specchio che rifletteva non solo la nostra immagine, ma anche le infinite possibilità che portavamo dentro di noi.
Il mazzo di tarocchi della nonna di Girolamo continuava il suo viaggio attraverso le nostre vite, testimone silenzioso delle nostre trasformazioni. Come cantava Branduardi, qualcosa stava sempre per cambiare, e un vento forte soffiava costantemente sul nostro vecchio mondo, trasformandolo in qualcosa di nuovo.
Capitolo XII: L’Incontro con Enzo
“Quella sua maglietta fina
tanto stretta al punto che mi immaginavo tutto…”
(Questo piccolo grande amore – Claudio Baglioni, 1972)
Ci sono incontri che non riconosci subito per quello che sono. Arrivano in punta di piedi, si siedono alla tua tavola come se fosse la cosa più naturale del mondo, e prima che tu te ne accorga sono diventati il centro di gravità della tua vita.
Enzo entrò nel Mulino come entrava ovunque: con una presenza quieta ma innegabile, con occhi che vedevano oltre le apparenze. Era una sera d’autunno, il tipo di serata in cui il profumo delle foglie bagnate saliva dalla strada, mescolandosi all’odore del sugo che Girolamo stava preparando.
“Vuoi una pizza?” chiese Girolamo con la sua solita ospitalità, le mani ancora bianche di farina.
“Preferisco guardarti mentre la fai,” rispose Enzo, e qualcosa nel suo modo di guardare, nella sua voce calma e sicura, mi fece tremare dentro. Non era l’attrazione fulminante che avevo provato per Zeno, né la ribellione appassionata di Val della Torre. Era qualcosa di più quieto, più profondo, più vero.
La cucina del Mulino divenne il teatro del nostro primo incontro vero. Enzo osservava Girolamo impastare con l’attenzione di chi riconosce un’arte quando la vede. Faceva domande intelligenti sulla temperatura dell’acqua, sul tempo di lievitazione, sul tipo di farina.
“La pasta è come la vita,” disse a un certo punto. “Devi sapere quando lavorarla e quando lasciarla riposare.”
Fu quella frase, detta con la semplicità di chi conosce profondamente ciò di cui parla, a catturarmi definitivamente. Era come tornare a casa in un posto dove non eri mai stato prima.
Le settimane seguenti furono una lenta, dolcissima scoperta reciproca. Enzo portò nel Mulino una calma che non conoscevamo, una saggezza pratica che si manifestava nei gesti quotidiani. Il suo modo di prendersi cura dello spazio, delle piante sul balcone, delle persone, era come una danza silenziosa che trasformava l’ordinario in straordinario.
“A volte penso a Zeno,” confessai una sera, mentre stavamo seduti sul balcone a guardare le luci della città. Era importante essere onesti, anche quando faceva paura.
“Lo so,” rispose semplicemente. “È normale.”
“Non ti dà fastidio?”
“Il passato ci forma. Non possiamo cancellarlo, possiamo solo imparare a conviverci.” La sua mano trovò la mia nell’oscurità, un gesto semplice che conteneva mondi.
Le sere al Mulino assumevano un ritmo nuovo con lui. Enzo aveva portato con sé una collezione di vecchi vinili – Leonard Cohen, Paolo Conte, Fabrizio De André – che creavano la colonna sonora perfetta per le nostre conversazioni notturne.
“Mi piace questo posto,” disse una sera sul balconcino della cucina, mentre un gatto randagio attraversava silenziosamente il cortile sotto di noi. “Ha un’anima.”
La sua presenza cambiò sottilmente ma profondamente il Mulino. Il suo modo di prendersi cura degli spazi, delle persone, del cibo che preparava, diventò parte del nostro DNA collettivo. La cucina, in particolare, si trasformò sotto le sue cure. Il lievito madre che iniziò a curare divenne una metafora vivente della nostra relazione: qualcosa che richiedeva attenzione costante, pazienza, e una profonda comprensione dei ritmi naturali.
La comunità del Mulino accolse Enzo come se lo avesse sempre aspettato. La sua capacità di ascoltare senza giudicare, di offrire consigli solo quando richiesti, di trovare la bellezza nei momenti più semplici, arricchì le nostre vite in modi che non avremmo mai immaginato.
“Sai cosa mi ha fatto innamorare di te?” disse una sera, mentre sistemavamo la cucina dopo una delle nostre cene comunitarie. Il suono dei piatti che tintinnavano si mescolava alla musica soft che veniva dal salotto.
Il cuore mi si fermò. Era la prima volta che usava quella parola.
“Il modo in cui guardi il mondo. Come se ogni cosa potesse essere magica.”
E mentre la notte avvolgeva il Mulino nel suo mantello di silenzio, capii che questo era l’amore vero: non quello che ti fa bruciare, ma quello che ti fa fiorire. Non quello che ti fa volare, ma quello che ti dà radici. Non quello che ti fa sognare, ma quello che ti fa vivere.
La nostra relazione cresceva come il lievito madre che Enzo curava ogni giorno: lentamente, costantemente, nutrendosi di attenzione e cura quotidiana. Non c’erano fuochi d’artificio, ma la calda certezza di una fiamma che non si spegne.
Il Mulino stesso sembrava più vivo con Enzo. Le sue stanze si riempivano del profumo del pane appena sfornato, le conversazioni in cucina si facevano più profonde, più significative. Era come se la sua presenza avesse aggiunto una nuova dimensione al nostro spazio condiviso.
Capitolo XIII: Danze Infinite
“Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ E siccome sei molto lontano più forte ti scriverò Da quando sei partito c’è una grossa novità L’anno vecchio è finito ormai Ma qualcosa ancora qui non va…”
(L’anno che verrà – Lucio Dalla, 1979)
“Cari amici vi scrivo,” risuona nella mia testa mentre guardo la città dal balcone del Mulino. L’alba sta tingendo i tetti di rosa, e il profumo del pane di Enzo riempie già la casa. Sono passati anni, ma alcune cose non cambiano mai: il rito quotidiano del pane, il modo in cui la luce del mattino accarezza i muri, il senso di possibilità che ogni nuovo giorno porta con sé.
Il Mulino brulica di vita nuova. Artisti, musicisti, sognatori continuano ad attraversare le nostre stanze come onde di un mare infinito. Ognuno lascia qualcosa, porta via qualcosa. Le pareti, ora coperte di foto, disegni e manifesti, raccontano storie stratificate come gli anelli di un albero secolare.
“Sai cosa cambia davvero?” chiede Enzo una mattina, mentre l’alba tinge di rosa i tetti di Torino. Le sue mani sono coperte di farina, il lievito madre della prima generazione continua a vivere e moltiplicarsi. “Niente e tutto insieme.”
Monica e Sandra sono tornate dall’ennesimo viaggio, questa volta con storie di resistenza dalla Palestina. Le loro macchine fotografiche hanno catturato nuove storie di lotta e speranza. Le loro fotografie tappezzano una parete: occhi di bambini, muri dipinti, ulivi secolari. Ogni immagine è una finestra su un mondo che sembra lontano ma che, in qualche modo, tocca le nostre vite qui al Mulino.
“Il mondo è più piccolo di quanto pensiamo,” dice Monica mostrando gli scatti durante una delle nostre serate di proiezione. La sala comune è piena di giovani attivisti, alcuni dei quali potrebbero essere figli di quelli che frequentavano il Mulino nei primi anni. “E più grande di quanto osiamo sperare.”
Girolamo ha trasformato la cucina in uno spazio di resistenza culinaria. Le sue lezioni di panificazione sono diventate momenti di condivisione politica e sociale. “Il cibo è politica,” dice mentre impasta, circondato da un gruppo di giovani apprendisti. “Ogni pasto condiviso è una rivoluzione.” Il suo approccio alla cucina è diventato una forma di attivismo quotidiano, un modo per costruire comunità attraverso il cibo.
LL continua i suoi rituali lunari, l’ascensore che porta al suo appartamento è sempre più spesso pieno di giovani in cerca di risposte che non esistono, ma che vale la pena cercare. Le sue serate si sono trasformate, evolute, ma mantengono quella qualità speciale che le ha sempre caratterizzate.
“Non siamo una comunità,” spiega a chi chiede, la sua voce ancora piena di saggezza. “Siamo una possibilità.”
Le notti con Enzo hanno il sapore del pane e della certezza. Non quella soffocante della stabilità forzata, ma quella nutriente della terra dopo la pioggia. Il nostro amore è cresciuto come il suo lievito madre: nutrendosi quotidianamente, trasformandosi, rimanendo vivo.
“A volte penso che siamo come il lievito madre,” sussurra nel buio, mentre la città dorme sotto di noi. “Ci nutriamo a vicenda, cresciamo insieme, e quello che creiamo nutre altri.”
E forse è proprio questo il punto: non resistere al cambiamento, ma danzarci insieme. Come il lievito madre che muore un po’ ogni volta per rinascere più forte, come il Mulino che si reinventa con ogni nuovo abitante, con ogni nuova storia.
I vecchi vinili girano ancora sul piatto, ma ora si mescolano con la musica digitale delle nuove generazioni. Le discussioni politiche si sono evolute, i temi sono cambiati, ma l’urgenza di cambiare il mondo rimane la stessa. Il tavolo da ping-pong continua a essere il centro della vita sociale, anche se ora ospita anche laptop e riunioni di collettivi studenteschi.
“Ma l’importante è quello che resterà,” dice una sera Girolamo, guardando un gruppo di giovani attivisti che pianificano una manifestazione per il clima. I suoi capelli sono ormai grigi, ma i suoi occhi brillano della stessa passione di sempre.
E cosa resta? Resta il modo di guardare il mondo. Resta la capacità di accogliere. Resta la certezza che l’anno che sta arrivando, tra un anno passerà – ma noi continueremo a danzare la nostra danza infinita.
Le nuove generazioni portano energie fresche, idee diverse, modi nuovi di vedere il mondo. Portano con sé nuove battaglie, nuove forme di resistenza, nuovi modi di amare e di lottare.
“Ogni generazione deve reinventare la rivoluzione,” dice Monica, fotografando un gruppo di giovani attivisti durante una riunione. “Ma i fondamenti rimangono gli stessi: amore, rispetto, libertà.”
Il Mulino è cambiato, certo. Le pareti sono state ridipinte più volte, i mobili sostituiti, gli spazi riorganizzati. Ma l’essenza rimane: è ancora un posto dove le persone possono essere se stesse, dove l’amore non ha bisogno di etichette, dove la diversità non è tollerata ma celebrata.
“L’anno che sta arrivando tra un anno passerà Io mi sto preparando è questa la novità…”

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