Aprofitto per inserire il podcast generato in italiano: podcast su notebookLM google
- Il Risveglio in Città
- L’Incontro che Cambia Tutto
- La Classe degli Ultimi
- La Nascita dello Zonupatodi
- La Famiglia di Via delle Acacie
- Lezioni di Guida, Lezioni di Vita
- La Città Pericolosa
- Musica e Rivoluzione
- Lo Scrutatore e la Morte
- Desideri Nascosti
- Il Corpo come Prigione
- Le Notti di Studio
- La Politica e la Strada
- L’Estate della Maturità
- Il Tempo della Comprensione
- Epilogo: Il Codice dell’Amore
- Glossario e note
Il Risveglio in Città
Mi affaccio alla finestra del nostro nuovo appartamento. Porta Palazzo si stende sotto di me come un formicaio impazzito. L’odore del mercato sale fino al terzo piano, un miscuglio di frutta troppo matura e pesce non proprio freschissimo.
“Ti piace la vista?” chiede mia madre, raggiungendomi alla finestra.
“È… diversa,” rispondo, osservando il viavai incessante di gente. Dopo sedici anni passati a guardare la Farmitalia dalla finestra, questo brulicare di vita mi stordisce.
“Diversa come?”
“Come essere su un altro pianeta.”
Lei sorride, capendo. Ha sempre capito, anche quando non trovavo le parole giuste.
Il bagno nuovo brilla come un gioiello proibito. Mi fermo sulla porta, esitante.
“Cos’hai?” chiede mio fratello, trovandomi immobile davanti alla porta.
“Mi sembra… strano. Avere il bagno in casa.”
“È solo un bagno.”
“No, è…” Mi interrompo. Come spiegare che è un simbolo? Che rappresenta tutto ciò che non avevamo, tutto ciò che ci separava dal mondo normale?
Il telefono squilla, facendomi sobbalzare. È ancora una novità, questo trillo improvviso che invade la casa.
“Rispondi tu,” dice mamma dalla cucina.
“Io?” Il panico mi stringe la gola.
“È solo un telefono!”
Mi avvicino all’apparecchio come se potesse mordermi. La cornetta pesa una tonnellata.
“P-pronto?” La mia voce esce in un sussurro.
“Ciao! Sono la zia Maria!”
Silenzio. Le parole mi si bloccano in gola.
“Pronto? Pronto? Mi senti?”
“Mmh… sì…” Altro silenzio. Sento il sudore colarmi lungo la schiena.
“Passa tua madre, vai.”
Mamma prende il telefono, parlando con una naturalezza che mi sembra miracolosa. La sento ridere, chiacchierare, come se avesse fatto questo tutta la vita.
“Come fai?” le chiedo dopo.
“A fare cosa?”
“A parlare… così. Al telefono.”
Mi guarda con tenerezza. “È come parlare normalmente. Solo che non vedi l’altra persona.”
“Appunto,” mormoro. “Come fai a sapere cosa dire quando non vedi l’altra persona?”
La sera, dalla finestra, guardo le luci del mercato che si spengono una ad una. I venditori ambulanti raccolgono le loro cose, lasciando dietro di sé un tappeto di verdure marce e cartoni abbandonati.
“Ti mancherà la campagna?” chiede papà, trovandomi ancora alla finestra.
“Non lo so,” rispondo onestamente. “Qui è tutto così… vivo.”
“Anche troppo vivo,” borbotta lui. “Hai visto che gente gira di notte?”
Li ho visti. I gruppi di uomini sotto i portici, le voci alterate dall’alcol, il luccichio occasionale di un coltello.
“Devi stare attento,” continua papà. “Questa non è Settimo.”
“Lo so.”
Ma in realtà non so nulla. Non so come muovermi in questa nuova giungla urbana, come interpretare i suoi codici, i suoi pericoli.
Quella notte, nel letto nuovo che ancora non riconosco come mio, ascolto i rumori della città. Grida lontane, una sirena, il rombo di motorini truccati. È così diverso dal silenzio notturno di Settimo, interrotto solo dalla sirena della Farmitalia.
“Un altro mondo,” sussurro al buio.
Mi alzo, vado in bagno – posso farlo, ora, senza dover attraversare il cortile al freddo. L’acqua calda esce subito dal rubinetto, un altro piccolo miracolo.
Mi guardo allo specchio del bagno nuovo. Ho ancora la stessa faccia, gli stessi occhi incerti, ma qualcosa sta cambiando. Lo sento, come si sente un temporale in arrivo.
“Benvenuto in città,” dico al mio riflesso.
La città risponde con un coro di clacson lontani, come se mi stesse dando il benvenuto a modo suo. Brutale, diretta, viva.
L’Incontro che Cambia Tutto
Il Peano si erge davanti a me, grigio e imponente. L’odore di gesso e adolescenza riempie i corridoi mentre cerco la 3ª C.
“La sezione C?” chiedo a un bidello.
“Fondo del corridoio. La classe degli scarti,” aggiunge con un ghigno.
Mi stringo nelle spalle, abituato a essere classificato come “scarto”. La porta dell’aula è socchiusa, voci e risate filtrano dall’interno.
Ed è lì che lo vedo per la prima volta.
Capelli ricci, pelle abbronzata anche a settembre, una camicia leggera troppo larga che nasconde qualcosa che ancora non capisco. Sta parlando, gesticolando, il centro naturale dell’attenzione.
“E allora ho detto al prete…” sta raccontando, ma si interrompe quando entro. Mi guarda, un sorriso ironico sulle labbra. “Nuovo?”
Annuisco, la gola improvvisamente secca.
“Siediti qui,” dice, indicando un banco vicino al suo. “Io sono Zeno.”
“Pa… Paolo,” balbetto, maledicendo la mia voce tremante.
“Paolo? Troppo noioso. Ti chiameremo Pa.”
E così, in un istante, sono ribattezzato. Come se Zeno avesse il potere di ricreare il mondo con le sue parole.
La mattinata scorre in un blur di presentazioni e prime lezioni. Ma i miei occhi continuano a tornare su di lui. Il modo in cui si muove, come se le regole della gravità non lo riguardassero. Come parla, senza filtri, senza paura.
“Signor Zeno,” la professoressa di italiano lo richiama all’ordine. “Vuole condividere con la classe cosa trova così divertente?”
“Stavo solo dicendo,” risponde lui con naturalezza disarmante, “che Leopardi aveva ragione sulla natura matrigna. Basta guardare come funziona questa scuola.”
Risate soffocate. La prof arrossisce, ma non risponde. Zeno ha questo effetto: dice cose che gli altri pensano ma non osano esprimere.
Durante l’intervallo, lo osservo di nascosto. Ha sempre qualcuno intorno, come se emanasse un campo magnetico.
“Ehi, Pa!” mi chiama all’improvviso. “Vieni qui.”
Mi avvicino, il cuore che batte forte.
“Di dove sei?”
“Settimo… cioè, ora Porta Palazzo.”
“Ah, un provinciale urbanizzato,” sorride. “Come me. Io sono di Volpiano.”
Qualcosa nel suo sorriso mi fa sentire meno solo, meno diverso.
Il crocifisso sulla parete ci guarda severo. Zeno lo fissa con disgusto.
“Simbolo di oppressione,” mormora. E prima che qualcuno possa fermarlo, si alza, lo stacca dal muro e lo spezza in due.
Il silenzio cade sulla classe come una coltellata.
“Chi è stato?” tuona il preside un’ora dopo.
Nessuno parla. Zeno si dondola sulla sedia, tranquillo. Lo guardo di sottecchi, ammirato e terrorizzato.
“Nessuno sa niente?” insiste il preside.
Scuotiamo tutti la testa. La solidarietà di classe, scopro, è più forte della paura dell’autorità.
Dopo, nel cortile, Zeno mi si avvicina.
“Grazie per non avermi tradito.”
“Non l’avrei mai fatto,” rispondo, e nelle mie parole c’è più verità di quanto osi ammettere.
“Lo sai che siamo la classe degli sfigati, vero?” dice all’improvviso.
“Sì, me l’hanno detto.”
“Perfetto,” sorride. “Gli sfigati sono i migliori. Sono quelli che non hanno niente da perdere.”
Lo guardo e sento qualcosa muoversi dentro di me. Un’emozione che non ha ancora nome, che non oso ancora riconoscere.
“Zo,” dice qualcuno passando.
“Zo?”
“Zombie,” spiega lui. “È il mio soprannome. Perché a volte… a volte faccio cose senza pensare alle conseguenze.”
“Come il crocifisso?”
“Esattamente,” ride. “Tu invece sei Pa. Suona bene, no?”
Annuisco, felice di questo battesimo laico, di questo nuovo nome che mi lega a lui.
La campanella suona, richiamandoci in classe. Mentre camminiamo verso l’aula, osservo di nascosto come la sua camicia si muove, nascondendo e rivelando forme che mi turbano.
“Che hai da guardare?” chiede, cogliendomi in flagrante.
“Niente,” arrossisco. “Mi piace la tua camicia.”
“Ah,” sorride enigmatico. “È comoda. Nasconde… cose.”
Non aggiunge altro, non ce n’è bisogno. In quel momento capisco che anche lui ha i suoi segreti, le sue diversità da nascondere.
E forse è proprio questo che mi attrae così irresistibilmente: questa familiarità con la diversità, questa capacità di trasformare lo stigma in forza.
“Andiamo,” dice. “C’è italiano. Voglio vedere che faccia fa la prof quando le spiego che Manzoni era un reazionario.”
Lo seguo, come farò per anni a venire, attratto dalla sua luce come una falena dalla fiamma. Non so ancora che mi brucerò, che questo sentimento che sta nascendo mi consumerà lentamente.
Ma per ora, in questo momento, sono solo felice di esistere nel suo spazio, di essere stato ammesso nel suo mondo.
La Classe degli Ultimi
“La sezione C,” sospira la professoressa di matematica il primo giorno, “è sempre stata… particolare.”
Lo dice come se particolare fosse una malattia, qualcosa da cui tenersi alla larga.
“I migliori vanno in A,” sussurra Nuccio dal banco dietro di me. “I mediocri in B. E noi…”
“Noi siamo i reietti,” completa Zeno con un sorriso orgoglioso. “I ribelli, gli irregolari.”
La nostra classe è un catalogo di diversità. C’è Marco, che sta perdendo i capelli per l’alopecia ma finge che non gli importi. C’è Toni, che parla con un leggero accento meridionale e scrive poesie di nascosto. C’è Dino, che viene da Volpiano come Zeno e guarda il mondo con occhi troppo vecchi per la sua età.
“Mi fate una sintesi dei Promessi Sposi?” chiede la professoressa di italiano.
“È una storia d’amore ostacolata dal potere,” risponde Zeno.
“Più precisamente?”
“Più precisamente è una critica al clericalismo e all’oppressione sociale,” continua lui. “Don Rodrigo è il simbolo del potere corrotto, la Chiesa è complice…”
“Signor Zeno, si attenga al programma!”
“Ma è il programma,” sorride lui innocente. “Solo visto da un’altra prospettiva.”
Le risate della classe sono il nostro modo di resistere. Ridiamo quando dovremmo stare zitti, parliamo quando dovremmo tacere.
“Sapete cosa vi serve?” tuona il professore di fisica dopo l’ennesima interrogazione disastrosa. “Disciplina!”
“Sa cosa ci serve davvero?” risponde Zeno. “Professori che insegnino invece di punire.”
Silenzio. Nessuno aveva mai osato tanto.
“Fuori!” urla il professore, rosso in viso.
Zeno si alza con calma teatrale, fa un inchino alla classe, esce.
“Qualcun altro vuole seguirlo?”
Nessuno si muove, ma nei nostri occhi brilla una luce nuova. Abbiamo trovato la nostra voce.
Durante l’intervallo, ci riuniamo nel cortile. Zeno è già lì, come se non fosse successo niente.
“Dobbiamo organizzarci,” dice. “Per lo studio.”
“Come?” chiede Toni.
“Gruppo di studio. Ognuno insegna quello che sa meglio agli altri.”
“Io sono bravo in matematica,” si offre Nuccio.
“Io in latino,” aggiunge Dino.
“Io…” esito, “io posso aiutare con l’italiano.”
Zeno mi guarda con approvazione. “Vedi? Anche gli ultimi possono essere primi in qualcosa.”
E così nasce il nostro gruppo di studio. Ci riuniamo dopo le lezioni, prima in classe, poi in biblioteca, infine…
Ma questa è un’altra storia.
“La sezione C,” dice il preside durante un’assemblea, “ha i voti più bassi dell’istituto.”
“Ma abbiamo le idee più alte,” mormora Zeno, facendoci ridere.
È vero. Mentre le altre sezioni studiano per i voti, noi studiamo per capire. Mentre loro seguono il programma, noi lo mettiamo in discussione.
“Sapete cosa significa essere ultimi?” chiede Zeno una sera, mentre ripassiamo storia.
“Essere scarti?” suggerisce Marco.
“No. Significa essere liberi. Quando sei ultimo, non hai niente da perdere. Puoi solo salire.”
Le sue parole ci danno coraggio. Diventiamo più uniti, più forti. La sezione C non è più solo una classe, è una famiglia.
“Vi siete mai chiesti,” dice un giorno la professoressa di filosofia, l’unica che sembra capirci, “perché le rivoluzioni partono sempre dal basso?”
“Perché gli ultimi hanno fame,” risponde Zeno.
“Fame di cosa?”
“Di giustizia. Di cambiamento. Di dignità.”
La guardo mentre parla, e vedo nei suoi occhi la stessa luce che vedo nei nostri. La luce di chi sa di essere diverso e ha smesso di vergognarsene.
La Nascita dello Zonupatodi
“È perfetta,” dice Zeno, spingendo la porta arrugginita della soffitta. Il cigolio riempie il silenzio.
“È un rudere,” osserva Toni.
“È il nostro rudere.”
La soffitta è polvere e ragnatele, vecchie casse abbandonate, finestre sporche che filtrano una luce grigiastra. Ma Zeno la guarda come se vedesse un palazzo.
“Qui,” indica un angolo, “metteremo i materassi per studiare. Là i libri. E sulle pareti…”
Si interrompe, notando i tabulati che stringo al petto. I fogli continui del computer della scuola, pieni dei miei pensieri nascosti tra le righe di codice.
“Quelli,” sorride. “Quelli saranno perfetti per le pareti.”
“Ma sono solo…” Mi fermo. Come spiegare che sono più di semplice carta?
“Sono la nostra storia,” completa lui. “Il nostro codice segreto.”
Nuccio e Dino cominciano a spostare le casse. Toni spazza il pavimento. Io resto immobile, stretto ai miei tabulati.
“Pa,” mi chiama Zeno dolcemente. “Non devi mostrarli se non vuoi.”
“No, è che…” Respiro profondo. “È come mettere il cuore sulle pareti.”
Mi guarda con intensità. “A volte è proprio quello che serve.”
Lentamente, cominciamo a trasformare la soffitta. Le pareti si riempiono di tabulati, ogni foglio una confessione nascosta tra le righe di FORTRAN. Nessuno può leggerle, ma sono lì, testimoni silenziose delle nostre vite.
“Come la chiamiamo?” chiede Dino una sera, mentre ci riposiamo dal lavoro.
“Deve essere un nome speciale,” dice Nuccio. “Qualcosa che sia solo nostro.”
“Zonupatodi,” dice Zeno all’improvviso.
“Cosa?”
“Zo-Nu-Pa-To-Di. Le nostre iniziali. Zombie, Nuccio, Pa, Toni, Dino.”
“Suona come una formula magica,” sorrido.
“Lo è,” risponde lui. “È la formula che ci tiene insieme.”
Le serate si susseguono. Studiamo, o fingiamo di farlo. Ogni materia diventa un pretesto per discussioni più profonde.
“La Mandragola non è solo una commedia,” proclama Zeno. “È una critica al potere.”
“E i particolari piccanti?” sogghigna Toni.
“Quelli sono per tenere sveglio Pa durante le spiegazioni,” ride Zeno, strizzandomi l’occhio.
Arrosisco, grato alla luce fioca che nasconde il mio imbarazzo.
Una sera resto solo. Ho risposto a un annuncio su DuePiù, una rivista trovata tra la carta da macero. Un ragazzo deve arrivare.
Il cuore mi batte forte quando sento i passi sulla scala. Non è come me l’aspettavo, non è come Zeno. Ma è reale, è qui.
Dopo, seduto sul materasso, mi sento vuoto. Non era questo che volevo, non così. Le pareti tappezzate di tabulati sembrano giudicarmi.
“Ehi.”
Sussulto. Zeno è sulla porta.
“Che ci fai qui?”
“Ho dimenticato un libro,” dice. Mi guarda, e nei suoi occhi vedo che sa. “Tutto ok?”
Annuisco, incapace di parlare.
Si siede accanto a me. Non dice nulla, ma la sua presenza è conforto sufficiente.
“A volte,” dice finalmente, “cerchiamo le cose nei posti sbagliati.”
“Tu come fai?” La domanda mi sfugge prima che possa fermarla.
“A fare cosa?”
“A essere così… libero.”
Ride, ma è una risata amara. “Non sono libero, Pa. Ho solo imparato a portare meglio le catene.”
Lo Zonupatodi diventa il nostro rifugio, il nostro mondo parallelo. Studiamo, ridiamo, cresciamo.
“La storia è una costruzione del potere,” proclama Zeno durante una sessione di studio.
“Come questa soffitta,” aggiungo sottovoce.
Mi guarda sorpreso. “In che senso?”
“Abbiamo preso uno spazio vuoto e l’abbiamo riempito di significato. Come fanno i potenti con la storia.”
Sorride. “Stai imparando, Pa.”
Le pareti continuano ad accumular strati di tabulati. Ogni foglio una confessione, ogni programma un segreto. La mia biografia si mescola con le equazioni FORTRAN, i miei desideri con le routine di sistema.
“Sai una cosa?” dice Zeno una sera, indicando le pareti. “Questi fogli sono come noi.”
“In che senso?”
“Sembrano una cosa ma ne nascondono un’altra. Come te che scrivi la tua vita facendo finta di programmare.”
Lo guardo terrorizzato. “Tu… hai letto?”
“No,” sorride. “Ma ti conosco. E va bene così.”
La Famiglia di Via delle Acacie
“Vieni a cena da noi,” dice Zeno con naturalezza, come se non fosse un invito che mi fa tremare le ginocchia.
Via delle Acacie 18, terzo piano. Il campanello suona stridente, e il cuore mi batte forte mentre aspetto.
“Ah, sei tu!” Il padre di Zeno apre la porta. È un uomo robusto, con le mani callose e un sorriso aperto. “Entra, entra! Maria, è arrivato l’amico di Zeno!”
L’appartamento è diverso da come me l’aspettavo. Libri ovunque, poster politici alle pareti, un caos organizzato che odora di sugo e di libertà.
“Siediti qui,” dice la madre, indicando una sedia. Non è come mia madre: è più giovane, più moderna, con i capelli corti e i jeans.
“Ti piace la pasta al forno?” chiede, già sapendo la risposta.
“Sì, grazie,” balbetto.
Clara, la sorella maggiore di Zeno, sta leggendo un libro sul Messico. “Un giorno me ne andrò laggiù,” annuncia. “Questo paese è troppo stretto.”
“Come i tuoi orizzonti,” la provoca Zeno.
“Vaffanculo,” risponde lei affettuosamente.
Mi stupisco. A casa mia, un linguaggio del genere sarebbe impensabile.
“Pa è scioccato dal nostro linguaggio da scaricatori,” ride Zeno.
“No, io…”
“Tranquillo,” dice il padre, passandomi il pane. “Qui si dice quello che si pensa. Anche le parolacce.”
La cena procede come un fiume in piena. Parlano tutti insieme, si interrompono, ridono, litigano, si riconciliano. È diverso dalle cene silenziose a casa mia, dove ogni parola viene pesata.
“E tu cosa ne pensi della situazione politica?” mi chiede improvvisamente il padre.
“Io…”
“Papà, lascialo stare,” interviene Zeno. “Pa pensa tanto ma parla poco.”
“Come me quando ero giovane,” sorride la madre. “Poi ho imparato che tacere non serve a niente.”
Dopo cena, Clara sparisce in camera sua con un libro di Neruda, la sorella più piccola va a guardare la TV.
“Andiamo in camera mia,” dice Zeno.
La sua stanza è un manifesto di ribellione: poster del Che, libri di Marx, una chitarra nell’angolo.
“È diverso da casa tua, vero?” chiede, notando il mio sguardo.
“Molto.”
“Ti mette a disagio?”
“No… è che… qui sembra tutto più facile.”
“Facile?” ride. “Prova a vivere con una sorella che vuole scappare in Messico e un padre che ti fa interrogatori politici a cena.”
“Almeno puoi essere te stesso.”
Si stende sul letto, guardando il soffitto. “Nessuno può essere completamente se stesso, Pa. Nemmeno qui.”
Mi siedo sulla sedia della scrivania, mantenendo una distanza di sicurezza.
“La tua famiglia… ti capisce,” dico piano.
“Mi accetta. Non è la stessa cosa.”
Dal soggiorno arriva la voce del padre che discute con Clara del Messico. La madre interviene, mediando.
“Sai perché Clara vuole andare in Messico?” chiede Zeno all’improvviso.
“Per gli orizzonti larghi?”
“Perché lì nessuno sa chi è. Può reinventarsi.”
“Come me a Porta Palazzo,” sussurro.
Mi guarda intensamente. “Esatto. Tutti cerchiamo il nostro Messico.”
Lezioni di Guida, Lezioni di Vita
“Frizione, prima, acceleratore,” la voce di Zeno è paziente mentre la 500 sobbalza e si spegne per l’ennesima volta.
“È impossibile,” sospiro, lasciando cadere le mani dal volante.
“Niente è impossibile,” sorride. “Devi solo trovare il tuo ritmo.”
Le sue mani si posano sulle mie, guidandomi. Il suo tocco mi fa tremare dentro.
“Senti?” dice. “È come un ballo. Frizione…” Le nostre mani si muovono insieme. “Prima…” Il cambio scatta in posizione. “Acceleratore…”
La macchina si muove dolcemente. Per un momento, siamo in perfetta sintonia.
“Visto?” La sua voce è vicina al mio orecchio. Troppo vicina.
Mi concentro sulla strada per non pensare al suo respiro sul collo, al calore del suo corpo accanto al mio.
“Ora la doppietta,” dice.
“No, quella proprio no.”
“Dai, è facile. Come ballare.”
“Io non so ballare.”
Ride. “Questo spiega molto.”
La 500 procede a scatti nel parcheggio vuoto del Peano. Il sole sta tramontando, e la sua luce obliqua gioca con i ricci di Zeno.
Iniziamo le nostre passeggiate, da casa mia a casa sua. Quattro, cinque chilometri a piedi, avanti e indietro.
“Raccontami di nuovo dei tuoi viaggi in autostop,” chiedo mentre camminiamo.
“Ti piace quella storia, eh?”
“Mi piace come la racconti.”
Si lancia in un racconto di agricoltori siciliani e cene offerte in cambio di lavoro nei campi. La sua voce mi avvolge come una coperta.
“Centomila lire per un mese intero,” dice orgoglioso. “Si può vivere di niente, se sai come fare.”
Lo guardo di sottecchi. La camicia leggera ondeggia nel vento della sera.
“Non hai freddo?” chiedo.
“Mai,” sorride. “Il freddo è uno stato mentale.”
Come l’amore, penso ma non dico.
Le lezioni di guida continuano. Ogni volta un pretesto per stare vicini, per sfiorarci accidentalmente.
“Il freno!” grida mentre quasi investo un bidone.
La sua mano afferra la mia sul freno a mano. Il cuore mi batte così forte che temo possa sentirlo.
“Scusa,” mormoro.
“Non scusarti sempre,” dice. “A volte bisogna rischiare.”
Ma non capisce che il vero rischio non è alla guida.
La sera, lo accompagno a casa per l’ultima volta prima degli esami.
“Sai una cosa?” dice sulla porta di casa. “Sei più forte di quanto credi.”
“Non come te.”
“No,” sorride. “Sei forte in modo diverso. Tu resisti. Io… io scappo.”
Vorrei abbracciarlo, dirgli tutto. Ma le parole rimangono intrappolate, come sempre.
“Buonanotte, Pa.”
“Buonanotte, Zo.”
Lo guardo sparire dietro la porta di Via delle Acacie, portando con sé tutti i miei desideri inespressi.
E forse è meglio così. Forse alcuni amori devono rimanere impossibili per rimanere perfetti.
Come lui, con le sue camicie larghe e il suo cuore ancora più grande.
Come me, con i miei silenzi e i miei desideri nascosti.
Come noi, in quella 500 che non imparerà mai la doppietta.
Irraggiungibile, come deve essere. Perfetto, proprio perché irraggiungibile.
La Città Pericolosa
“Tieni gli occhi bassi e cammina veloce,” mi dice Toni mentre usciamo dallo Zonupatodi. È tardi, le strade di Porta Palazzo hanno cambiato volto.
“Non guardare mai direttamente negli occhi,” continua. “Ma tieni sempre sotto controllo le ombre.”
I portici sono un teatro di ombre cinesi. Sotto le arcate, uomini giocano con tre bicchieri e una pallina.
“Vieni, vinci facile!“ ci chiamano. “Guarda dov’è la pallina!“
“Non fermarti,” sussurra Toni. “È una truffa.”
Ma mi fermo lo stesso, affascinato dal movimento ipnotico dei bicchieri.
“Il ragazzino vuole giocare?” Un uomo con un sorriso oleoso si avvicina.
“No, stavamo…”
“Solo un giro. È facile, guarda.”
La pallina danza sotto i bicchieri. Sembra così semplice seguirla.
“Andiamo,” Toni mi tira per la manica.
Troppo tardi. Due uomini ci hanno circondati.
“L’orologio,” dice uno. “E il portafoglio.”
Vedo il luccichio di una lama. Il cuore mi si ferma.
“Subito,” insiste, la voce bassa e minacciosa.
Le mani tremanti, sfilo l’orologio – regalo di compleanno – e lo consegno insieme alle poche lire che ho in tasca.
“Anche tu,” dice all’amico.
Toni esegue in silenzio.
“Bravi ragazzi,” sogghigna quello col coltello. “Ora sparite.”
Camminiamo velocemente, quasi corriamo. Solo quando siamo lontani, al sicuro, ci fermiamo.
“Stai bene?” chiede Toni.
Annuisco, ma non è vero. Qualcosa si è rotto dentro di me.
Il giorno dopo, racconto tutto a Zeno.
“È successo anche a me,” dice. “È un rito di iniziazione di Porta Palazzo.”
“Come fai a non avere paura?”
“Chi dice che non ho paura? Il trucco è non farsela vedere.”
Mi insegna i codici della strada: quali zone evitare, come camminare, come comportarsi.
“Vedi quello?” indica un uomo sotto i portici. “È il capo della bisca. Se lo saluti con rispetto, ti protegge.”
“Come lo sai?”
“L’ho imparato. Come tutto il resto.”
La sera, da casa, guardo la piazza attraverso la finestra. È come un formicaio impazzito: commercianti che chiudono, spacciatori che aprono, vite che si incrociano nell’ombra.
Una sera, passando sotto i portici, il capo della bisca mi fa un cenno. Mi fermo, il cuore in gola.
“Ho visto che sei amico di Zeno,” dice.
“Sì.”
“Quello è uno tosto. Un po’ matto, ma tosto. Tu… tu sei diverso.”
Mi guarda negli occhi, e per un momento temo che veda troppo.
“Ma vai bene così,” aggiunge. “La strada ha bisogno di tutti i tipi.”
Torno a casa pensando alle sue parole. Diverso. Sempre diverso, ovunque.
Ma forse ha ragione Zeno: il trucco non è non avere paura, è non farsela vedere.
Musica e Rivoluzione
“Ascolta questa,” dice Zeno, posando delicatamente la puntina sul vinile. La voce ruvida di Guccini riempie lo Zonupatodi.
“La locomotiva…“ canticchia, gli occhi chiusi.
“È triste,” dico.
“No, è rivoluzionaria,” mi corregge. “È la storia di un uomo che dice no al sistema.”
Seduti sul pavimento dello Zonupatodi, ascoltiamo il vinile che gira, che racconta storie di ribelli e di rivoluzioni.
“Anche Lolli devi ascoltare,” aggiunge, cambiando disco. “Lui ha capito tutto.”
La voce graffiante di Claudio Lolli riempie lo spazio: “Ho visto anche degli zingari felici…“
“Non capisco tutte le parole,” ammetto.
“Non devi capire le parole,” sorride. “Devi sentire la rabbia, la voglia di cambiare le cose.”
Mi passa la chitarra. “Prova tu.”
“Non sono capace.”
“Nessuno è capace all’inizio. Guarda.”
Si siede dietro di me, le sue mani sulle mie, guidandomi sugli accordi. Il suo respiro sul mio collo mi fa tremare le dita.
“Re minore,” sussurra. “Poi La settima.”
La sera dopo siamo in piazza Cavour, nella sede di Democrazia Proletaria. L’aria è densa di fumo e di sogni di rivoluzione.
“Compagni,” dice qualcuno, “dobbiamo organizzare il corteo.”
Zeno è nel suo elemento. Parla, gesticola, convince. Io resto in disparte, assorbendo tutto.
“Perché non parli mai?” mi chiede una ragazza.
“Preferisco ascoltare.”
“Come Lolli,” interviene Zeno. “Prima ascolti, poi scrivi canzoni.”
Arrossisco. Sa della cassetta che ho registrato in solitudine? Quella con i miei esperimenti sonori, i suoni elettronici mescolati alla mia voce incerta?
“A proposito,” continua, “ho fatto sentire la tua cassetta al collettivo.”
Il sangue mi si gela nelle vene. “Cosa?”
“Era bella. Strana, ma bella. Come te.”
Non so se essere arrabbiato o lusingato. Quelle registrazioni erano private, intime.
“Non avresti dovuto,” mormoro.
“Perché? L’arte è politica. Anche la tua.”
Torniamo allo Zonupatodi. De Gregori canta di Pablo, di bambini che giocano alla rivoluzione.
“Sai cosa mi piace di te?” dice all’improvviso Zeno.
“Cosa?”
“Che sei rivoluzionario senza saperlo.”
“Io? Ma se non faccio niente…”
“Esisti. È già rivoluzionario.”
Le sue parole mi colpiscono come pugni. Esistere. È davvero così rivoluzionario?
La chitarra passa di mano in mano. Nuccio strimpella Eskimo, Toni prova Rimmel. Io mi limito ad ascoltare, come sempre.
“Un giorno,” dice Zeno, “faremo un concerto. Tutti insieme.”
“Per cosa?”
“Per la rivoluzione, ovvio.”
“Quale rivoluzione?”
Mi guarda intensamente. “Quella personale. Quella che ci renderà liberi di essere chi siamo.”
Un brivido mi percorre la schiena. Sa? Ha capito?
Dalla strada sale il rumore di un corteo. Slogan e canti di protesta.
“Andiamo?” chiede Zeno, già in piedi.
“Io… preferirei restare qui.”
“Va bene,” sorride. “Qualcuno deve custodire la musica.”
Resto solo con i dischi. Metto su Dalla. “Com’è profondo il mare…“ La voce mi avvolge come una coperta.
Prendo la chitarra, provo gli accordi che Zeno mi ha insegnato. Re minore, La settima. Le mie dita trovano lentamente la loro strada.
Quando torna, ore dopo, mi trova ancora così.
“Hai imparato,” dice.
“Un poco.”
Si siede accanto a me. Odora di fumo e di strada.
“Com’era il corteo?”
“Il solito. Abbiamo urlato, corso, sognato la rivoluzione.”
“E l’avete fatta?”
Ride. “La rivoluzione non si fa in un giorno. Si fa un accordo alla volta, una canzone alla volta.”
Prende la chitarra dalle mie mani, inizia a suonare La locomotiva.
“Canta con me,” dice.
“Non so le parole.”
“Non importa. Inventa le tue.”
E così cantiamo, lui le parole di Guccini, io un mormorio senza senso. Ma forse ha ragione lui: non sono le parole che contano, è il sentimento.
Lo Scrutatore e la Morte
“Ha il cancro,” dice Zeno senza preamboli. “Le hanno dato pochi mesi.”
Siamo seduti sui gradini dello Zonupatodi, e lui mi parla di Anna, la ragazza che ci procura gli incarichi da scrutatore.
“Ma è così giovane,” sussurro.
“La morte non guarda l’età,” risponde lui, accendendosi una sigaretta. “Come la DC non guarda l’onestà.”
Anna ci aspetta in sezione. È pallida, troppo magra, ma i suoi occhi brillano di una luce febbrile.
“Ecco i vostri moduli,” dice, passandoci i documenti per fare gli scrutatori. “Democrazia Cristiana, ovviamente.”
“Ovviamente,” ghigna Zeno. “Il partito di Dio non può che avere scrutatori atei.”
Lei ride, ma la risata si trasforma in tosse. “Almeno voi non ruberete voti.”
La guardo e vedo la morte che le danza intorno, paziente, in attesa. Mi fa paura, ma non riesco a distogliere lo sguardo.
“Perché ci aiuti?” chiedo improvvisamente.
“Perché voglio lasciare qualcosa,” risponde semplicemente. “Anche solo dei seggi elettorali onesti.”
Il giorno delle elezioni arriviamo presto al seggio. L’odore di carta e inchiostro riempie l’aria.
“Ricordate,” ci ha istruito Anna, “controllate ogni scheda. Non lasciate passare niente di irregolare.”
Contiamo voti per ore. Zeno trova modi creativi per tenere il conto: “Questo è per Sant’Antonio, questo per San Giuseppe…“
“Non essere blasfemo,” lo rimprovera il presidente di seggio.
“Non lo sono,” risponde innocente. “Sto solo dando a Cesare quel che è di Cesare.”
La notte è lunga. Penso ad Anna nel suo letto d’ospedale, che conta i giorni invece dei voti.
Poi, un giorno, la notizia: Anna sta meglio. Il cancro sta regredendo.
“È un miracolo,” dicono alcuni.
“È la scienza,” corregge Zeno.
Ma io sono arrabbiato. “Non doveva guarire,” dico a Zeno in un momento di confusione.
Mi guarda stupito. “Cosa?”
“Ci eravamo preparati. Avevamo accettato. E ora…”
“E ora è viva. Non è abbastanza?”
“Ma noi… le nostre emozioni…”
Si siede accanto a me. “Pa, la morte non ci deve niente. Nemmeno le nostre emozioni preparate.”
Anna torna in sezione, più magra ma viva. Terribilmente, meravigliosamente viva.
“Altri moduli da scrutatore?” chiede Zeno.
“Sempre,” sorride lei. “La DC ha bisogno di atei onesti.”
Desideri Nascosti
La rivista DuePiù è nascosta tra i tabulati del computer. L’ho trovata tra la carta da macero, come un segno del destino.
“Cosa leggi con tanto interesse?” chiede Nuccio, entrando improvvisamente nello Zonupatodi.
“Programmazione,” mento. “Codice FORTRAN.”
Ma non sono codici quelli che studio. Sono gli annunci personali, messaggi in bottiglia di altri come me.
“Cercasi amicizia…“ leggo di nascosto, la sera. “Ragazzo sensibile cerca…“
Le parole danzano davanti ai miei occhi, promesse di connessioni possibili.
Prendo coraggio. Scrivo una lettera, la prima:
“Ragazzo diciassettenne, timido, cerca amicizia…“
La spedisco con mani tremanti. L’indirizzo è una casella postale anonima.
“Che scrivi sui tabulati?” chiede Zeno un pomeriggio, trovandomi chino sui fogli continui.
“La mia vita,” rispondo con una sincerità che mi sorprende.
“Posso leggere?”
“No!“ La risposta esce troppo veloce, troppo disperata.
Mi guarda con quegli occhi che sembrano vedere attraverso di me. “Va bene,” dice semplicemente. “Tutti abbiamo i nostri segreti.”
La prima risposta alla mia lettera arriva. Un incontro viene organizzato.
Lo Zonupatodi è vuoto quel pomeriggio. Il ragazzo che arriva non è come me l’aspettavo. È più grande, più sicuro.
“Sei tu che hai scritto?” chiede.
Annuisco, incapace di parlare.
Dopo, seduto sul materasso, mi sento vuoto. Non era questo che cercavo. Non così, non qui.
I tabulati sulle pareti sembrano giudicarmi. Ogni riga di codice nasconde una confessione, un desiderio, una paura.
“Mi sono sentito sporco,” scrivo quella sera. “Ma non per quello che ho fatto. Per non aver sentito niente.“
Le pareti dello Zonupatodi accumulano strati su strati di confessioni. Programmi FORTRAN si mescolano con pensieri intimi, variabili numeriche nascondono variabili emotive.
“Perché non usi un diario normale?” chiede Toni un giorno, guardando i tabulati.
“Perché questi nessuno li legge,” rispondo. “Sono invisibili proprio perché sono in vista.”
Come me, penso ma non dico.
Un’altra lettera da DuePiù. Un altro incontro. Questa volta dico di no.
“Non puoi nasconderti per sempre,” mi dico allo specchio del bagno nuovo.
Ma non è nascondermi, quello che faccio? Nei tabulati, nelle bugie, nel silenzio?
“Ho visto che hai risposto a un annuncio,” dice Zeno un giorno, come se parlasse del tempo.
Il panico mi paralizza. “Come…”
“Ho riconosciuto la tua scrittura sulla busta. Non l’ho aperta,” aggiunge velocemente. “Non sono affari miei.”
“Io… non è come pensi.”
“Non penso niente, Pa. Ognuno cerca l’amore come può.”
L’amore. La parola mi colpisce come uno schiaffo.
“Non è amore che cerco,” protesto debolmente.
“No?” Il suo sorriso è gentile. “E cosa cerchi allora?”
Me stesso, vorrei dire. Ma le parole non escono.
La sera, aggiungo nuovi tabulati alle pareti. La mia biografia cresce, un foglio alla volta.
“Caro me stesso,” scrivo. “Oggi ho quasi detto la verità.“
I programmi si fanno più complessi. Nascondo messaggi nei commenti, sentimenti nelle variabili.
“IF (solitudine > coraggio) THEN…”
“PRINT ‘Non sono pronto’”
“END IF”
Zeno passa più tempo allo Zonupatodi. A volte lo sorprendo a guardare le pareti, come se cercasse di decifrare il codice.
“Sai,” dice una sera, “i migliori scrittori sono quelli che sanno nascondere la verità in piena vista.”
“Non sono uno scrittore.”
“No. Sei un programmatore di emozioni.”
Il Corpo come Prigione
“Non mi piace il caldo,” dice Zeno, tirando la camicia larga lontano dal petto. “Mi fa sentire… esposto.”
Siamo seduti sul tetto dello Zonupatodi, il sole di giugno che brucia le tegole. Gli altri sono andati a casa, siamo rimasti solo noi due.
“È per la ginecomastia?” chiedo sottovoce.
Si irrigidisce, poi si rilassa. “Sì. No. Non solo.”
Lo guardo di sottecchi. La camicia bianca, sempre troppo larga, ondeggia nel vento caldo.
“A volte,” continua, “mi sembra che il mio corpo sia una gabbia. Come se dentro ci fosse qualcun altro, qualcuno che non corrisponde a quello che si vede fuori.”
“Ti capisco,” sussurro.
Mi guarda intensamente. “Lo so.”
E in quel momento, in quel semplice lo so, c’è una comprensione che va oltre le parole.
“Le camicie larghe sono una corazza,” dice dopo un po’. “Come i tuoi tabulati. Come il tuo silenzio.”
“Non sono coraggioso come te.”
Ride amaramente. “Credi che sia coraggio? È sopravvivenza.”
Il sole continua a bruciare, ma nessuno dei due si muove. C’è qualcosa di sacro in questo momento di vulnerabilità condivisa.
“Sai,” dice all’improvviso, “a volte penso che siamo tutti prigionieri. Alcuni nelle loro camicie larghe, altri nei loro silenzi.”
“E non c’è via d’uscita?”
“C’è sempre una via d’uscita. Solo che a volte costa troppo trovarla.”
La sera, mentre torno a casa, penso alle sue parole. Al suo corpo che nasconde sotto le camicie larghe, al mio cuore che nascondo sotto strati di codice.
Siamo tutti prigionieri, aveva detto. Ma forse la vera prigione non è il corpo, è la paura.
Le Notti di Studio
“La Mandragola,” leggo ad alta voce, “è una commedia che parla di…”
“Sesso!” interrompe Toni ridendo.
“Potere,” corregge Zeno. “Parla di potere. Il sesso è solo lo strumento.”
Siamo tutti nello Zonupatodi, libri sparsi intorno a noi come reduci di una battaglia. È notte fonda, ma nessuno pensa a dormire.
“Come fai a rendere tutto politico?” chiede Nuccio.
“Come fate voi a non vedere che tutto è politico?” risponde Zeno. “Anche questo, noi qui, stanotte, è un atto politico.”
“Studiare è politico?”
“Esistere è politico.”
Mi perdo nei suoi occhi mentre parla. La passione con cui spiega le cose rende tutto più vivido, più reale.
“Pa, stai seguendo?” mi richiama.
“Sì,” mento, arrossendo.
Sorride come se sapesse esattamente dove stava vagando la mia mente.
Le notti di studio sono diventate il nostro rituale. Ognuno porta qualcosa: Nuccio il caffè, Toni i biscotti, Dino le sue intuizioni brillanti. Io porto il mio silenzio attento, Zeno la sua capacità di trasformare ogni argomento in una rivelazione.
“Leopardi non era solo pessimista,” sta dicendo ora. “Era rivoluzionario. Vedeva la natura come sistema di oppressione.”
“Come la scuola,” aggiunge Toni.
“Come la società,” completo io, sorprendendomi della mia stessa audacia.
Zeno mi guarda con approvazione. “Esatto. Tutto è collegato.”
La notte avanza, i libri si accumulano, le parole si mescolano alla stanchezza creando una specie di delirio lucido.
“Non ce la faccio più,” sbadiglia Dino. “Ho il cervello in pappa.”
“Un’ultima cosa,” insiste Zeno. “Pa, spiegaci tu il passaggio sulla Mandragola.”
Mi schiarisco la gola, cercando di ricordare le sue parole. “Dunque… non è solo una storia di seduzione. È una critica alla corruzione della Chiesa, all’ipocrisia sociale…”
“E il sesso?” insiste Toni.
“Il sesso è… una metafora. Del potere, del desiderio di controllo…”
Del desiderio t court, penso ma non dico.
“Bravo,” sorride Zeno. “Hai capito perfettamente.”
Il suo complimento mi scalda più di quanto dovrebbe.
Verso l’alba, siamo tutti mezzi addormentati sui materassi dello Zonupatodi. Tutti tranne Zeno, che continua a parlare di rivoluzione, di cambiamento, di possibilità.
“Sai una cosa?” mi dice sottovoce, mentre gli altri dormono. “Sei l’unico che ascolta davvero.”
“Gli altri ascoltano.”
“Gli altri sentono. Tu ascolti. C’è differenza.”
Nel silenzio che segue, sento il peso di tutte le cose non dette. Di tutti i desideri nascosti tra le righe dei nostri quaderni, tra le pieghe delle nostre uniformi scolastiche.
“A volte,” sussurro, “vorrei poter dire tutto quello che penso.”
“Lo fai già,” risponde. “Solo che usi un linguaggio diverso.”
“FORTRAN?”
Ride piano. “La poesia dei numeri, il codice dei sentimenti.”
L’alba inizia a filtrare attraverso le finestre sporche dello Zonupatodi. Un nuovo giorno si affaccia, promettendo altre lezioni, altre scoperte, altri silenzi eloquenti.
“Dovremmo dormire un po’,” dico.
“Dormiremo quando saremo vecchi,” risponde lui. “O quando avremo finalmente capito tutto.”
“E quando sarà?”
Mi guarda con quel suo sorriso enigmatico. “Mai, spero. Sarebbe troppo noioso.”
E così continuiamo a studiare, a parlare, a nascondere verità in mezzo a teoremi e poesie. Perché forse è questo il vero studio: imparare a leggere tra le righe, a vedere oltre le apparenze.
Come Zeno che vede oltre le mie bugie.
Come io che vedo oltre le sue camicie larghe.
Come noi tutti, che impariamo a vedere oltre le pagine dei libri, cercando la nostra verità personale tra le righe della storia ufficiale.
La Politica e la Strada
“Compagni!“ La voce di Zeno rimbomba nella sede di Democrazia Proletaria in piazza Cavour. “Non possiamo restare in silenzio!”
La stanza è piena di fumo e di sogni. Manifesti del Che alle pareti, volantini sparsi sui tavoli, l’odore di ciclostile nell’aria.
“È il primo anniversario della strage,” continua. “Dobbiamo essere a Bologna.”
Lo guardo mentre parla, gesticola, convince. È nel suo elemento qui, come un pesce nell’acqua. Io resto nell’angolo, assorbendo tutto, sempre ai margini.
“Verrai anche tu,” non è una domanda.
“Io non so…”
“Pa,” mi prende per le spalle, “alcune battaglie non si possono combattere da lontano.”
E così mi ritrovo su un treno per Bologna, stipato di giovani che cantano Guccini e sventolano bandiere rosse.
“Non sei obbligato a parlare,” mi sussurra Zeno, notando il mio disagio. “Basta esserci.”
La città ci accoglie come una madre. Strade piene di gente, musica che esce da ogni finestra, un’energia che non ho mai sentito prima.
“Vedi?” dice Zeno. “Questa è la rivoluzione. Non è solo nelle parole, è nell’aria.”
Dormiamo nei sacchi a pelo sui pianerottoli, mangiamo panini seduti sui gradini di San Petronio. Per la prima volta, mi sento parte di qualcosa più grande di me.
“Ti si legge in faccia,” dice Zeno una sera.
“Cosa?”
“La libertà. Ti sta bene.”
Torniamo a Torino cambiati. O forse solo più consapevoli di chi siamo.
“La rivoluzione,” dice Zeno durante una riunione in sezione, “comincia sempre da dentro.”
Lo guardo e penso a tutte le rivoluzioni che combatto nel silenzio del mio cuore.
L’Estate della Maturità
“Z uguale a X più Y,” scrivo sulla lavagna dello Zonupatodi. “È l’ultima formula. Ce l’abbiamo fatta.”
Siamo agli sgoccioli, la maturità è questione di giorni. L’aria è densa di ansia e aspettative.
“Non è solo una formula,” dice Zeno, sdraiato sul materasso con un libro di storia sullo stomaco. “È una metafora.”
“Di cosa?”
“Di noi. X è quello che siamo, Y è quello che vogliamo essere, Z è quello che diventeremo.”
Lo guardo storto. “Stai filosofeggiando anche sulla matematica?”
“Sto filosofeggiando sulla vita, Pa. La matematica è solo una scusa.”
I giorni scorrono veloci. Troppo veloci. Sento che qualcosa sta per finire, e non sono pronto.
“Ho paura,” confesso una sera, mentre ripassiamo fisica.
“Dell’esame?”
“Del dopo.”
Mi guarda a lungo. “Anch’io.”
È la prima volta che ammette di avere paura di qualcosa.
“Che farai dopo?” chiedo.
“Viaggerò. Come sempre. E tu?”
“Non lo so,” rispondo onestamente. “Tutto quello che so è qui, in questa soffitta, tra questi tabulati…”
“Non è vero,” mi interrompe. “Quello che sai è dentro di te. I tabulati sono solo un modo per dirlo.”
L’ultimo giorno di scuola arriva come un ladro nella notte. All’improvviso siamo lì, sulla soglia dell’età adulta, terrorizzati e eccitati allo stesso tempo.
“Ho scritto una tesina sul sistema operativo dello Z80,” dico a Zeno. “L’ho scritta a mano, ma il prof vuole tutto a macchina…”
“Classico,” sorride. “Vogliono che le cose sembrino ordinate anche quando non lo sono.”
La sera prima degli esami, siamo tutti nello Zonupatodi. L’ultima notte del nostro regno.
“Vi ricordate il primo giorno?” chiede Toni. “Quando Zeno ha spaccato il crocifisso?”
“E quando Pa ha scritto quel tema sulla Mandragola che ha fatto arrossire la prof?” aggiunge Nuccio.
Le risate si mescolano alla nostalgia anticipata. Sappiamo tutti che niente sarà più come prima.
“Sai cosa penso?” dice Zeno mentre gli altri dormono. “Penso che gli esami siano sopravvalutati.”
“In che senso?”
“Nel senso che il vero esame l’abbiamo già dato. Qui, in questa soffitta, imparando a essere noi stessi.”
Mi volto verso di lui nel buio. “E l’abbiamo passato?”
“Tu sì,” risponde dopo un momento. “Sei l’unico che non ha mai smesso di cercare la verità. Anche quando faceva male.”
Soprattutto quando faceva male, penso.
L’alba ci trova ancora svegli, a parlare di tutto e di niente. Del futuro che ci aspetta, del passato che stiamo per lasciare.
“Mi mancherà,” dico guardando i tabulati alle pareti.
“Cosa? La soffitta?”
“La libertà di essere… diverso.”
Mi guarda con quegli occhi che sembrano sempre vedere troppo. “Quella non la perderai mai. È parte di te ora.”
E forse ha ragione. Forse tutto quello che abbiamo vissuto qui – le risate, le paure, i segreti, le confessioni nascoste nel codice – è diventato parte di noi.
Come una formula matematica che non potremo mai dimenticare.
Come una rivoluzione che continua a bruciare sotto la pelle.
Come un amore che non oserà mai dire il suo nome.
“Andiamo,” dice Zeno alzandosi. “È ora di diventare adulti.”
Ma io non voglio, penso. Non ancora. Non quando ci sono così tante cose non dette.
Ma il sole sta salendo, e gli esami ci aspettano.
La vita adulta ci aspetta.
E tutto quello che possiamo fare è andare avanti, portando con noi i nostri segreti, le nostre paure, i nostri amori impossibili.
Come un codice FORTRAN che nessuno leggerà mai completamente.
Il Tempo della Comprensione
“Sessanta,” dice il presidente di commissione. “Un bel voto.”
Ma non lo sto ascoltando. Guardo Zeno che esce dall’aula dopo il suo orale, la camicia larga che ondeggia mentre cammina verso di me.
“È finita,” dice semplicemente.
“È finita,” ripeto, e in quelle parole c’è molto più della fine degli esami.
Lo Zonupatodi è silenzioso ora. I tabulati alle pareti sembrano più sbiaditi, come se anche loro sapessero che è tempo di andare.
“Dobbiamo smantellare tutto,” dice Nuccio.
“No,” interviene Zeno. “Lasciamo tutto com’è. Per quelli che verranno dopo.”
“E i tuoi tabulati?” mi chiede Toni.
“Restano qui,” rispondo. “Sono parte della storia di questo posto.”
Sono la mia storia, penso, la storia che non ho mai avuto il coraggio di raccontare davvero.
La sera, restiamo solo io e Zeno. Gli altri sono andati a festeggiare in un bar.
“Non vieni?” mi aveva chiesto Toni.
“Dopo,” avevo risposto, sapendo che era una bugia.
Siamo seduti sul pavimento della soffitta, una bottiglia di vino tra noi. Fuori, la città si prepara alla notte.
“Sai,” dice Zeno all’improvviso, “ho sempre saputo.”
Il cuore mi si ferma. “Saputo cosa?”
“Tutto. I tabulati. Gli annunci su DuePiù. Il modo in cui mi guardi.”
Il silenzio cade pesante tra noi. Vorrei sprofondare, sparire, morire.
“Non dire niente,” continua. “Non c’è bisogno.”
“Mi dispiace,” sussurro.
“Di cosa? Di essere chi sei?”
“Di non essere… normale.”
Ride, ma è una risata gentile. “Normale? Guarda me. La mia ginecomastia, le mie camicie larghe, la mia rabbia contro il mondo. Pensi che sia normale?”
“Tu sei perfetto,” le parole mi sfuggono prima che possa fermarle.
“No, non lo sono. Ma ho imparato ad accettarmi. Come dovresti fare tu.”
Mi passa la bottiglia. Il vino sa di lacrime non piante.
“Sai perché non ho mai detto niente?” continua.
Scuoto la testa.
“Perché dovevi arrivarci da solo. Come ci sono arrivato io.”
“A cosa?”
“A capire che l’amore non è una colpa. Che essere diversi non è una condanna.”
L’amore. Ecco la parola che non ho mai osato pronunciare, nemmeno nei miei tabulati più segreti.
“Partirò domani,” dice dopo un lungo silenzio. “Vado in Germania, forse più in là.”
“Lo so.”
“Ma prima volevo dirti una cosa.”
Mi volto a guardarlo. La luna filtra attraverso le finestre sporche, disegnando ombre sul suo viso.
“Sei la persona più coraggiosa che conosca.”
Rido amaramente. “Io? Che mi nascondo dietro codici e silenzi?”
“Proprio tu. Perché nonostante la paura, non hai mai smesso di essere te stesso. Anche se solo sulla carta, anche se solo in segreto.”
Si alza, si avvicina alla parete. Legge un pezzo di tabulato.
“‘IF love > fear THEN…’ È questo il vero coraggio, Pa. Continuare ad amare anche quando hai paura.”
Le lacrime che ho trattenuto per anni finalmente scendono.
“Ti ricordi cosa ti dissi il primo giorno?” chiede.
“Che gli sfigati sono i migliori?”
“Che sono quelli che non hanno niente da perdere. Ma mi sbagliavo. Abbiamo tutto da perdere. E tutto da guadagnare.”
Si avvicina, mi abbraccia. È la prima volta che ci tocchiamo davvero, senza pretesti di lezioni di guida o di studio.
“Devo andare,” dice infine.
“Lo so.”
“Ma prima…”
Si china, mi bacia leggermente sulla fronte. Un bacio di benedizione, di addio, di comprensione.
“Grazie,” sussurra.
“Di cosa?”
“Di avermi amato così perfettamente. Così silenziosamente. Così completamente.”
E poi se ne va, la sua camicia larga che ondeggia per l’ultima volta nella luce della luna.
Epilogo: Il Codice dell’Amore
Anni dopo, inserendo una password su un computer dell’università, le mie dita digitano automaticamente: “zeno”.
“Password errata,” lampeggia lo schermo.
Sorrido. Certo che è errata. Zeno non poteva essere contenuto in quattro lettere, come non poteva essere contenuto in una camicia larga, in una tesina rifiutata, in un amore taciuto.
Mi arriva una cartolina dalla Germania. Non è di Zeno, ma di Clara, sua sorella.
“Avevi ragione,” scrive. “Qui gli orizzonti sono davvero più larghi.”
Mi chiedo se Zeno l’abbia mai raggiunta laggiù. Se abbia trovato il suo posto nel mondo. Se pensi mai allo Zonupatodi, ai tabulati che nascondevano confessioni, alla 500 che non ha mai imparato la doppietta.
I vecchi tabulati sono ancora in una scatola, da qualche parte. A volte li rileggo, come si rileggono le lettere d’amore mai spedite.
“GOTO 1984,” avevo scritto in un commento. “RETURN TO SUMMER.”
Ma non si può tornare indietro. Il codice scorre solo in una direzione, come la vita.
E forse va bene così. Forse l’estate della maturità doveva essere proprio questo: un programma perfetto nella sua incompiutezza, un amore perfetto nella sua impossibilità.
Come una password che resta segreta.
Come una camicia che nasconde il cuore.
Come un viaggio che non finisce mai.
Runtime complete.
Glossario e note
Tecnologia e Informatica
FORTRAN:
Linguaggio di programmazione usato principalmente per calcoli scientifici, molto popolare negli anni ’80. Il nome deriva da “FORmula TRANslation”. Per la sua struttura rigida, veniva utilizzato per nascondere messaggi personali tra i commenti di codice.
Tabulati:
Fogli di carta continua utilizzati dalle stampanti ad aghi dell’epoca. I tabulati avevano fori sui lati per il trascinamento della carta. Spesso venivano riutilizzati per appunti o, come in questa storia, per diari segreti.
Sistema Operativo Z80:
Il microprocessore Z80 era il cuore di molti computer degli anni ’80. Scrivere a mano del suo sistema operativo era quasi un atto romantico, un tentativo di connettersi con la tecnologia in modo più personale.
Olivetti Lettera 32:
Iconica macchina da scrivere italiana. Il suo “tac-tac” era inconfondibile e scrivere di notte significava cercare di ammortizzare il rumore per non svegliare la famiglia.
Musica e Cultura
Guccini:
Francesco Guccini, cantautore italiano le cui canzoni, come La Locomotiva, erano manifesti politici e sociali. I suoi testi poetici e complessi erano fonte di ispirazione e discussione.
Lolli:
Claudio Lolli, un altro cantautore molto amato nei circoli di sinistra. La sua canzone Ho visto anche degli zingari felici era un inno alla libertà e alla diversità.
De Gregori:
Francesco De Gregori, cantautore italiano noto per il suo mix di poesia e impegno politico. Canzoni come Pablo erano simbolo di ribellione e ricerca di giustizia sociale.
Società e Politica
Democrazia Proletaria:
Partito politico della sinistra radicale italiana (1975-1991), punto di riferimento per molti giovani politicamente impegnati. Rappresentava uno spazio di attivismo e discussione fuori dai partiti tradizionali.
DC (Democrazia Cristiana):
Il partito dominante dell’epoca, simbolo del potere costituito contro cui i giovani di sinistra si ribellavano. La DC spesso assegnava incarichi di scrutatore come forma di favore politico.
La Strage di Bologna:
Il 2 agosto 1980, un attentato terroristico alla stazione di Bologna causò 85 morti. Il primo anniversario dell’attentato diventò un simbolo di lotta e aggregazione politica per i giovani di tutta Italia.
Vita Quotidiana e Costumi
DuePiù:
Rivista di annunci personali, uno dei pochi mezzi per cercare connessioni negli anni ’80, specialmente per chi si sentiva “diverso”. Gli annunci erano spesso scritti in un linguaggio velato comprensibile solo agli iniziati.
La Bisca dei Tre Bicchieri:
Un gioco d’azzardo illegale diffuso sotto i portici delle città. Era spesso una truffa, usata per attirare vittime da derubare.
Scrutatore:
Cittadino incaricato di controllare le operazioni di voto ai seggi elettorali. L’assegnazione di questi ruoli era a volte usata dalla DC per favorire politicamente i suoi sostenitori.
Luoghi e Spazi
Porta Palazzo:
Il mercato all’aperto più grande d’Europa, situato nel cuore di Torino. Durante il giorno era un luogo di commercio e scambio, ma di notte diventava un territorio con le proprie regole.
Lo Zonupatodi:
Spazio simbolico creato dai protagonisti, il nome deriva dalle iniziali dei membri del gruppo. Rappresentava un “rifugio sicuro”, un luogo dove poter essere se stessi lontano dalle convenzioni sociali.
Riferimenti Culturali
La Mandragola:
Commedia di Niccolò Machiavelli, studiata a scuola e spesso reinterpretata dai giovani in chiave politica e sociale.
Il Crocifisso in Classe:
Simbolo dell’influenza della Chiesa Cattolica nelle istituzioni italiane. Rimuoverlo dalla parete era considerato un atto di ribellione contro l’autorità.
Particolarità Linguistiche
“Fare la Doppietta”:
Tecnica di guida che consiste nel cambiare marcia senza usare la frizione, considerata un’abilità avanzata, soprattutto con le Fiat 500 dell’epoca.
“Essere della Sezione C”:
Nelle scuole italiane, le sezioni erano spesso suddivise in base al rendimento degli studenti. Essere nella sezione C significava essere considerati meno brillanti, quasi una “classe di scarto”.
Aspetti Sociali
Il Bagno in Casa:
Negli anni ’80, specialmente nelle periferie, non tutte le abitazioni avevano un bagno interno. Avere il bagno in casa era un simbolo di modernità e rappresentava un salto sociale importante.
Il Telefono:
L’arrivo del telefono in casa era un passaggio alla modernità. La difficoltà ad usarlo rispecchiava il disagio e la paura della comunicazione diretta, che in alcuni contesti era ancora percepita come invasiva o intimidatoria.
Note sulla Lettura
Questi elementi oggi possono sembrare arcaici, ma ciascuno portava con sé un mondo di significati per chi li viveva ogni giorno. Lo Zonupatodi, il FORTRAN, la musica impegnata, le notti di studio, sono tutti frammenti di una realtà dove anche le piccole cose rappresentavano atti di resistenza, identità e ricerca di libertà.

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